Gli “Incontri con uomini straordinari” di Gurdjieff.

copertinaGeorges Ivanovič Gurdjieff (1872-1949) filosofo, santone, mistico, scrittore, maestro di vita, viaggiatore, protagonista di avventure rocambolesche e fuori dall’ordinario, ha avuto un grande numero di discepoli durante la sua vita e ancora oggi i suoi seguaci sono distribuiti in tutto il mondo. Arrivato in Francia nel 1922 fonda l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo al castello del Prieuré, presso Fontainebleau. Qui i suoi discepoli si riunirono in una comunità indipendente, il cui scopo principale era quello di compiere un’approfondita conoscenza di sé applicando il metodo del maestro, attraverso tecniche ed esercizi ben precisi. Dopo un grave incidente automobilistico avuto nel 1924 Gurdjieff inizia la sua attività di scrittore per tramandare la sua dottrina anche dopo la morte.

Dal mio punto di vista, può venire chiamato straordinario soltanto l’uomo che si distingua da quelli che lo circondano per le risorse del suo spirito e che sappia contenere le manifestazioni provenienti dalla propria natura, pur mostrandosi giusto e indulgente verso le debolezze altrui.

Incontri con uomini straordinari, pubblicato nel 1960 e del quale esiste anche una trasposizione cinematografica realizzata nel 1978 da Peter Brook, suo discepolo, racconta in forma autobiografica dei pellegrinaggi durati circa vent’anni (dal 1887 al 1907) in giro per il mondo insieme ai Cercatori della verità e le storie legate alla conoscenza di uomini determinanti per il suo percorso di crescita interiore, che, volontariamente o involontariamente, hanno agito da fattore vivificante per la formazione definitiva di uno degli aspetti della mia attuale individualità.

Mi propongo di dare all’insieme delle idee che sto per esporre una forma accessibile a tutti, nella speranza che queste idee potranno servire da elementi costruttivi e preparare il cosciente dei miei simili a edificare un mondo nuovo – mondo reale secondo me, e suscettibile di essere percepito come tale da ogni pensiero umano senza il minimo impulso di dubbio – al posto di questo mondo illusorio che i nostri contemporanei si rappresentano.

In effetti Gurdjieff riesce nel suo proposito, l’esposizione è chiara ed accessibile in tutto il libro. Il suo intento principale consiste nel tentativo di risvegliare le coscienze, unico modo per potere cambiare il mondo, modificandone radicalmente la percezione che abbiamo di esso. Gurdjieff parla di risveglio poiché è convinto che attualmente la nostra vita sia più vicina allo stato di sonno che non a quello di veglia, praticamente viviamo una vita da addormentati e solo lavorando con grande disciplina su noi stessi potremo raggiungere il necessario livello di consapevolezza indispensabile per la rinascita.

Sono le convenzioni di cui siamo imbottiti che costituiscono la morale soggettiva. Ma una vita vera esige la morale oggettiva, che può venire soltanto dalla coscienza. La coscienza è la stessa dovunque: qui è come a Pietroburgo, come in America, nella Kamčatka o nelle isole Salomone. Oggi sei qui, ma domani puoi essere in America. Se hai una vera coscienza, e se ad essa adegui la tua vita, dovunque tu sia, tutto andrà bene.

La principale causa dell’assopimento è data dalle famigerate convenzioni. È davvero molto difficile rendersi conto di quanto influiscano sulla nostra esistenza e fino a che punto ci limitino, per quanto in questo blog, ben prima di leggere Gurdjieff, è stata mossa contro di esse una guerra senza frontiere. Egli sostiene che se una coscienza ha l’opportunità di svilupparsi liberamente allora di certo sa più di quanto si possa trovare nei libri o di quanto possano insegnare i maestri, e suggerisce inoltre, nei casi in cui la coscienza non è ancora perfettamente formata, per evitare errori clamorosi, di adeguarsi all’insegnamento di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe subire su sé stessi.

gurdjieffSe i sermoni di frate Seze producono immediatamente una forte impressione, alla lunga tale impressione invece scompare e, alla fine, non ne rimane assolutamente nulla. Quanto alla parola di frate Akhel, in un primo momento essa non fa quasi nessuna impressione. Ma, col tempo, l’essenza stessa del suo discorso acquista di giorno in giorno una forma più definita e penetra interamente nel cuore dove rimane per sempre.

Colpiti da questa constatazione, ci mettemmo tutti a cercare perché ciò accadeva, e giungemmo alla conclusione unanime che i sermoni di frate Seze provenivano soltanto dal suo intelletto, e non agivano, di conseguenza, che sul nostro intelletto, mentre quelli di frate Akhel provenivano dal suo essere e agivano sul nostro essere.

Eh sì, caro professore, il sapere e la comprensione sono due cose completamente differenti. Soltanto la comprensione può portare all’essere. Il sapere di per se stesso non ha che una presenza passeggera: un nuovo sapere caccia via il precedente, e, in fin dei conti, non è altro che del nulla versato nel vuoto.

Un concetto molto importante che viene sviluppato è quello della conoscenza. Non è tanto l’accumulare sapere enciclopedico quanto il comprendere che porta all’essere e si può ben capire fino a che punto potesse essere rivoluzionario e sconcertante un tale modo di pensare per l’epoca. Naturalmente Gurdjieff non rifiuta il sapere in sé, ma mostra come esso sia frutto di altri automatismi, di una concatenazione mnemonica e senz’anima. Se però il sapere, come insieme di informazioni apprese, si unisce alle esperienze personali vissute, alla pratica, allora ecco che abbiamo quella forma di conoscenza che arricchisce e permette una visione d’insieme ampia e nitida che agevola il cammino verso di sé e verso il risveglio.

Gurdjieff, per bocca di un anziano intellettuale persiano, non risparmia stoccate mortali alla cultura europea:

Purtroppo l’attuale periodo culturale – che noi chiamiamo civiltà europea, e che così verrà chiamato dalle generazioni future – è intercalare, se così si può dire, nell’evoluzione dell’umanità; in altri termini, è un abisso, un periodo di vuoto nel processo generale di perfezionamento umano, perché, ed è un fatto acquisito, i rappresentanti di questa civiltà sono incapaci di tramandare ai loro discendenti alcunché di valido per lo sviluppo dell’intelligenza, questo motore essenziale di ogni perfezionamento.

Se la letteratura è uno dei principali mezzi per lo sviluppo dell’intelligenza ecco che la civiltà contemporanea distruggendola ha anche impedito l’ulteriore crescita spirituale e intellettuale dell’umanità, creando un punto di stallo, una frattura forse insanabile per un tempo lunghissimo.

Le esigenze della civiltà contemporanea hanno generato un’altra forma molto specifica di letteratura, che viene chiamata giornalismo. Non posso passare sotto silenzio questa nuova forma letteraria, perché, a parte il fatto che non porta assolutamente nulla di buono per lo sviluppo dell’intelligenza, essa è diventata, a mio avviso, il male dei nostri tempi, nel senso che esercita un’influenza funesta sui rapporti umani.

Ma c’è una forma letteraria ancora più subdola e pericolosa che contraddistingue la società moderna, si tratta del giornalismo, un tema quanto mai attuale in questo periodo. Secondo l’anziano il diffondersi del giornalismo è la diretta conseguenza della debolezza e mancanza di volontà da parte degli uomini di oggi. In questo modo si viene a creare una paralisi del pensiero che impedisce al senso critico di analizzare la realtà esterna con lucidità così da prenderne coscienza e in tal guisa recuperare anche la memoria di sé.

Per sfortuna di noi tutti questo genere di letteratura, che invade ogni anno di più la vita quotidiana degli uomini, fa subire alla loro intelligenza, già molto indebolita, un indebolimento ancora peggiore consegnandola inerme a ogni genere di inganni e di errori; essa li mette fuori strada a ogni passo, li distoglie da qualsiasi modo di pensare più o meno fondato e, invece di un giudizio sano, stimola e fissa in loro alcune tendenze indegne quali: incredulità, ribellione, paura, falso pudore, dissimulazione, orgoglio, e così via.

Se vogliamo fare un paragone con il giornalismo dei nostri giorni non possiamo non trovarci d’accordo sul fatto che manca totalmente di obiettività e oltre ad una sempre più evidente pletora di frasi sgrammaticate, scarsa proprietà di linguaggio e un lessico povero e involgarito, non meno importante è il fatto che spesso, nelle pagine di riviste e quotidiani, si impone un pensiero di maggioranza o si è asserviti a quello dei proprietari dei giornali in questione. Tutto questo sopprime il senso critico, il pensiero personale e contribuisce a rendere sempre più semplice potere ingannare e rendere schiava la popolazione.

Tra questi operai del giornalismo e della letteratura contemporanea lo spirito di corpo è molto sviluppato: essi si sostengono a vicenda e si lodano in ogni occasione in modo esagerato. Mi sembra anzi che questa caratteristica sia la causa principale della loro proliferazione, della loro falsa autorità sulla massa, e dell’adulazione incosciente e servile dimostrata dalla folla per quelli che si potrebbero definire, con la coscienza a posto, delle perfette nullità.

Per abbattere i muri, infrangere tutte le maschere che ci appesantiscono, rallentano, rendono deboli, ipocriti, è necessario imparare a trovare la propria anima, che non è un dono, ma è anch’essa qualcosa che si deve guadagnare anche e soprattutto con la sofferenza. Lo smantellamento delle illusioni, di quello che ci si è abituati a credere di essere, lo sforzo di rinunciare all’assopimento, rinunciare al proprio ego imperante, tutto questo richiede uno sforzo enorme e un dolore cosciente.

«Dopo quell’incontro, il mio mondo interiore e il mio mondo esteriore sono completamente cambiati. Nelle concezioni che si sono radicate in me, è avvenuta spontaneamente una revisione di tutti i valori. Prima di questo incontro ero un uomo completamente assorbito dai propri interessi e dai propri piaceri personali, come pure dagli interessi e dai piaceri dei propri figli. Ero sempre rivolto, col pensiero, a cercare di soddisfare il meglio possibile i miei bisogni e i loro. Posso dire che fino a quel momento tutto il mio essere era dominato dall’egoismo e tutte le mie emozioni e manifestazioni provenivano dalla mia vanità. Il mio incontro con padre Giovanni ha fatto giustizia di tutto questo e da allora, a poco a poco, in me è apparso qualcosa che ha portato tutto me stesso alla convinzione assoluta che al di fuori delle agitazioni della vita esiste qualcos’altro che dovrebbe essere lo scopo e l’ideale di ogni uomo più o meno capace di pensare – e che questo altro soltanto può rendere l’uomo veramente felice e offrirgli dei valori reali, invece di quei ‘beni’ illusori che, nella vita comune, gli vengono prodigati sempre e dovunque».

Non so molto di e su Gurdjieff, ma qualunque mortale venga mitizzato, osannato, elevato al rango di semidio, suscita in me innumerevoli perplessità. Anche in presenza di insegnamenti validi e affascinanti, non bisogna mai dimenticare che ci si trova sempre di fronte a delle persone. Perciò se si vuole seguire un certo orientamento va tutto bene, purché non si perda mai il senso critico e non si ponga nessuno su un piano oltre-umano. La tendenza principale dell’uomo è la natura gregaria, molti sentono il bisogno di riunirsi in gruppo, di sentirsi dire cosa fare, cosa è giusto, cosa è sbagliato e soprattutto il fatto di prendere come punto di riferimento qualcuno in particolare da idolatrare (e responsabilizzare) è qualcosa che nella storia dell’umanità si verifica sistematicamente, a volte con effetti devastanti. Se c’è un leader c’è anche un corteo di adoratori sperticati, pronti a servirlo, riverirlo e a sacrificare sé stessi pur di assecondarlo. Se non vogliamo scomodare personaggi storici di cui si parla e si è parlato in ogni epoca, basta pensare all’incessante proliferare di sette e congregazioni varie, in tutte le parti del mondo, dal credo spesso farneticante e malgrado ciò con un folto seguito di adepti di ogni ceto e cultura.

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Il Consiglio d’Egitto. “La menzogna è più forte della verità”.

Quale posto occupano ragione e verità nel mondo? O meglio quale posto devono occupare? Certamente il posto che la storia manipola per loro. Sappiamo tutti di vivere in un mondo di ipocrita finzione, ornata di pensiero filosofico o religioso, di impeto patriottico, di orgoglioso furore in nome dell’onore. Ma cosa sappiamo veramente di questi bei concetti se non quello che l’onda del momento comanda? Altrimenti perché ciò che è vero oggi domani risulterà ignobile menzogna? E perché se si muore da perseguitati per certe idee adesso, domani poi si diventerà eroi, precursori, martiri?

La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita.

copertinaIl Consiglio d’Egitto (1963) di Leonardo Sciascia, racconta del creativo imbroglio filologico, letterario e sociale di don Giuseppe Vella che, in occasione del fortunoso arrivo a Palermo dell’ambasciatore del Marocco, Abdallah Mohamed ben Olman, vede e coglie la possibilità di cambiare la propria vita assurgendo ai vertici della società, che fino a quel momento lo aveva snobbato. Non essendoci in città esperti di arabo, il viceré chiama il cappellano dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, Giuseppe Vella appunto, che a quanto pare è l’unico a poter fare da interprete e quindi a potersi occupare dell’ambasciatore durante il suo soggiorno a Palermo. Vella, che fino a quel momento è vissuto di espedienti, tra i quali anche dell’attività di smorfiatore di sogni, convocato insieme all’ambasciatore per prendere visione di un codice arabo conservato nel monastero di San Martino, finge, malgrado il dignitario riveli subito che si tratta di una delle tante vite di Maometto, che sia invece un manoscritto dove si racconta della conquista della Sicilia. Siamo nel dicembre del 1782 e grazie ad una società superficiale e ottusa, intenta a perseguire solo i propri interessi, dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innata avarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili, prontamente cogliendo l’occasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucido azzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura.

L’altro protagonista del libro è l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista, rappresentante della ragione e seguace delle iniziative giacobine, convinto sostenitore delle idee di uguaglianza tra gli uomini. Complotta contro il vecchio ordine a favore della repubblica pagando un prezzo altissimo per le proprie convinzioni.

Guardando dalla platea, Di Blasi credeva di scorgere, sotto le alterne apparenze di noia e ironia, la profonda malinconia di quell’uomo. Acutissima, pensava il giovane avvocato, doveva essere in un uomo simile la coscienza della sconfitta e della morte [] Con la sua mente vigorosa, col suo carattere che da ogni ostacolo, da ogni resistenza, attingeva decisione ed energia, aveva subito attaccato il secolare edificio della feudalità siciliana. E aveva dovuto affrontare l’aperta resistenza della nobiltà, gelosa fino alla cecità dei propri privilegi, e quella ora aperta ora subdola del governo di Napoli, dove come ministro sedeva il siciliano marchese della Sambuca. Quel che era riuscito a fare, stretto in tale condizione, poneva nella storia di Sicilia le premesse di una possibile rivoluzione. Aveva individuato e messo a nudo i punti dolenti, i gangli paralizzati della vita siciliana: e anche se non era riuscito a sanarli o a reciderli, ne lasciava chiara diagnosi alle poche persone effettivamente preoccupate e sinceramente ansiose che nella loro patria il diritto prendesse il luogo dell’arbitrio, che uno Stato ordinato, giusto, civile si sostituisse al privilegio e all’anarchia baronale, al privilegio ecclesiastico.

All’inizio della narrazione era viceré il Caracciolo, un uomo illuminato che desiderava eliminare dalla Sicilia i privilegi baronali e clericali, perciò era inviso a tutti gli uomini di potere, laici od ecclesiastici e a tutti i nobili che lo vedevano come una minaccia costante alle proprie fortune. Per questo si organizzò una magnifica festa in occasione della partenza definitiva del viceré richiamato a Napoli.

E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie!»

Dopo avere impiegato lungo tempo nella “traduzione” del manoscritto intitolato il Consiglio di Sicilia, Vella pensa bene di procurarsi dell’altro materiale con il quale creare di sana pianta il Consiglio d’Egitto, un codice tramite il quale prendeva in mano i diritti delle varie famiglie nobiliari, attribuendo loro magari illustri origini, ma restituendo alla Corona il legale possesso dei feudi, un forte segnale d’allarme per la nobiltà siciliana, che comunque egli si guarda bene dallo scontentare oltre un certo limite.

[] il Vella si improvvisa autore di due codici diplomatici, il Consiglio di Sicilia e quindi il Consiglio d’Egitto, nei quali pubblica il carteggio degli emiri di Sicilia coi principi d’Africa e quello dei principi normanni coi califfi d’Egitto.

Pura invenzione del furbo maltese che, «consapevole che persona alcuna in quella città fosse in grado di conoscere la sua lingua, e di conseguenza di comprendere l’impostura, adultera a suo capriccio codici e monete, creando racconti, descrizioni, storie genealogiche, principi giuridici dai quali sarebbe derivata una convenienza per la corona e che comunque giovassero a mantenerlo in buono stato ed a fargli godere il favore del Re e della nobiltà siciliana, nonché onorificenze, pensioni, abbazie».

(Paolo De Gregorio, Vita di Rosario Gregorio, 1996, Sellerio)

Tra il 1783 e il 1795 l’Europa si interesserà della vicenda dell’abate Vella rendendolo famoso, il suo destino si incrocerà con quello di Di Blasi e alla fine del romanzo (e della storia) Vella verrà scoperto e condannato a 15 anni di reclusione, mentre l’avvocato finirà in carcere, torturato e decapitato, per aver sognato la repubblica siciliana.

Vella e Di Blasi sono i portavoce dell’innovazione, il primo, anche se autore di un’impostura, in realtà non fa che prendersi gioco della stoltezza di chi sta ai vertici della società, mentre il secondo apre la strada ad un cambiamento radicale, ovvero un settore che esige sempre un numeroso esborso di vittime.

«Eh no, questo non è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e falsificazione della realtà, della storia… ebbene, io vi dico che l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile… Dico di più: l’abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini… Di un crimine che la Sicilia consuma da secoli…»

Il tentativo di smantellare il feudalesimo, il privilegio, radicato nelle abitudini, nella mentalità, in ogni fibra dell’essere, comincia dunque col Caracciolo, prosegue poi con l’inganno del Vella e fallisce definitivamente col sacrificio di Di Blasi.

Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grave di racimoli, incommensurabile. I racimoli di sangue, l’oscuro sangue dell’uomo. [] Il tuo corpo non ha più niente d’umano: è un albero di sangue… Bisognerebbe farla provare ai teologi, ché finalmente capiscano che la tortura è contro Dio, che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo…

Di colpo precipitò in un mare buio, il cuore come un’ala spezzata. Quando riebbe luce, era di nuovo davanti al tavolo dei giudici: i suoi piedi toccavano la terra, l’onda del dolore gli batteva soltanto, ardente e violenta sui polsi.

Amare e bellissime le pagine sulla tortura, una delle tante beffe perpetrate alla ragione e all’intelligenza, eppure, malgrado sia chiaro ad ogni essere pensante che la tortura non può portare alla verità, bensì alla mortificazione dell’essenza stessa di essere individui, di fare parte del consorzio umano, tuttavia la si è applicata per legge e ancora oggi la si applica laddove il diritto è un optional e non ha nemmeno la parvenza d’esistere. Perfino l’abate Vella, per quanto mosso fino a quel momento da meri interessi personali, grazie al sacrificio dell’avvocato si accorge di non essere indifferente a certi destini, di provare simpatia per l’uomo e di avere anche delle idee sulla rivoluzione e sulle varie forme di governo. Insomma nessuna sofferenza è vana, anche se poi, in generale la storia segue sempre le stesse coordinate.

La ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia, di cui una volta era stato perfino spettatore, non avevano mai tubato i suoi sentimenti: li metteva in conto di eventi naturali o, a pensarci bene, li considerava come opera di correzione della natura non dissimile, e altrettanto necessaria, della potatura delle viti e della rimonda degli ulivi. Sapeva che c’era un libro, di un certo Beccaria, contro la tortura, contro la pena di morte: lo sapeva perché monsignor Lopez, proprio in quei giorni ne aveva ordinato il sequestro. E conosceva le idee di Di Blasi in proposito. Ma ci sono tante belle idee che corrono per il mondo; solo che il verso delle cose è un altro, violento e disperato. Ora però, a figurarsi una persona che conosceva, un uomo per il quale aveva stima e affetto, straziato dalla tortura e destinato alla forca, sentiva improvvisamente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito.

E, malgrado siano trascorsi secoli e tutto l’apparato si sia mascherato d’altra effigie, viviamo tempi poi così diversi? Non abbiamo una classe di impostori privilegiati che vive a spese del cittadino lavoratore onesto? Blaterando di agire per interesse del paese e della collettività? Quando capita di rivedere sketch del passato nei quali i comici criticano il governo, sembra sempre che parlino del momento attuale, ulteriore prova che nel tempo cambia pochissimo, che l’uomo ha sempre la stessa sete di potere e di prevaricazione, mentre libertà, uguaglianza e fraternità rimangono concetti buoni per qualche slogan, campagna elettorale o per i nostalgici, ma nel campo della realtà attuabile equivalgono alla più lontana utopia.

L’analisi di Sciascia è impietosa e i fatti di cui narra sono emblematici, si prestano ad aderire perfettamente ad ogni epoca e a tratteggiare un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.

Il Consiglio d’Egitto è anche un film del 2002 diretto da Emidio Greco, con Silvio Orlando e Tommaso Ragno.

 

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René Daumal. Il Monte Analogo. E voi, che cosa cercate?

Il tema del viaggio, come discesa agli inferi o come ascensione, sembra essere una costante in letteratura, per rappresentare al meglio quel percorso di crescita interiore che ci trasforma incessantemente, noi esseri che siamo in continuo divenire. Il pensiero simbolico è il più adatto per la comprensione data la sua caratteristica fondamentale di togliere all’oggetto in questione le peculiarità individuali, per farlo diventare un’immagine che contenga ogni possibile variante.

Nella tradizione fiabesca, avevo scritto in sostanza, la Montagna è il legame fra la Terra e il Cielo. La sua cima unica tocca il mondo dell’eternità e la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo dei mortali. È la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo.

copertinaIl Monte Analogo (Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche), (1968), si dedica al viaggio di ricerca come ascensione e dunque il suo simbolo privilegiato non può che essere la montagna. René Daumal (1908-1944) aveva iniziato il racconto nel 1939 durante un soggiorno a Pelvoux, sulle Alpi, ma non riuscirà a portarlo a termine a causa della sua morte prematura e il quinto capitolo (dei sette previsti) si interrompe su una frase incompiuta. Il titolo dell’ultimo capitolo doveva essere: E voi, che cosa cercate?

In una lettera del 24 febbraio 1940 a Raymond Christoflour, René Daumal diceva:

Sto scrivendo un racconto piuttosto lungo nel quale si vedrà un gruppo di esseri umani che hanno capito di essere in prigione, che hanno capito di dovere, prima di tutto, rinunciare a questa prigione (perché il dramma è l’attaccarvisi), e che partono in cerca di una umanità superiore, libera dalla prigione, presso la quale essi potranno trovare l’aiuto necessario. E lo trovano, perché alcuni compagni ed io abbiamo realmente trovato la porta. Solo a partire da questa porta comincia una vita reale. Questo racconto avrà la forma di un romanzo d’avventure intitolato “Il Monte Analogo”: è la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra; via che deve materialmente, umanamente esistere, perché se no, la nostra situazione sarebbe senza speranza…

Il narratore avvia il racconto partendo dall’arrivo di una busta. Nel periodo in cui collaborava alla Revue des Fossiles aveva scritto un articolo sul significato simbolico della montagna nelle mitologie antiche, e lì faceva riferimento al Monte Analogo come realmente esistente. La busta che gli viene recapitata contiene la lettera di un eccentrico signore, Pierre Sogol, da tempo convinto dell’esistenza di quel monte e finalmente felice di poter condividere le sue idee, i suoi studi e di potere organizzare addirittura una spedizione per trovarlo.

C’era nella maniera di pensare di quell’uomo, come in tutto ciò che appariva di lui, una singolare mescolanza di vigorosa maturità e di freschezza infantile. Ma soprattutto, come sentivo accanto a me le sue gambe nervose e infaticabili, così sentivo il suo pensiero come una forza sensibile quanto lo è il calore, la luce o il vento. Tale forza era una facoltà eccezionale di vedere le idee come fatti esteriori e di stabilire legami nuovi tra idee apparentemente disparate. Lo udivo—lo vedevo anche, oserei dire—trattare la storia umana come un problema di geometria descrittiva, poi, un istante dopo, parlare delle proprietà dei numeri come se si fosse trattato di specie zoologiche; la fusione e la scissione delle cellule viventi diventavano un caso particolare di ragionamento logico, e il linguaggio traeva le sue leggi dalla meccanica celeste.

In ogni viaggio di ricerca c’è una guida, qui è Pierre Sogol, che già dal nome si offre come condottiero della scalata del Pensiero (sogol = logos) e ricettacolo di simboli in questo cammino metafisico. In otto partono a bordo dello yacht Impossibile, di proprietà di uno dei partecipanti alla spedizione, alla volta dell’ignoto alla ricerca dell’infinito.

Perché una montagna possa assumere il ruolo di Monte Analogo, concludevo, è necessario che la sua cima sia inaccessibile, ma la sua base accessibile agli esseri umani quali la natura li ha fatti. Deve essere unica e deve esistere geograficamente. La porta dell’invisibile deve essere visibile.

Il desiderio di raggiungere l’assoluto passa attraverso la pratica spirituale e porta in primo piano il regno dell’interiorità rispetto al mondo esterno ed alle sue illusioni. Chi sono? La ricerca di sé, il ritrovamento della propria essenza è l’interrogativo principale, è il fulcro del libro e il primo passo verso la verità. Pertanto solo per pochi eletti la porta diventa accessibile.

Ecco dunque quello che ho concluso, eliminando semplicemente tutte le ipotesi insostenibili. In qualche punto della Terra esiste un territorio con una circonferenza di almeno diverse migliaia di chilometri, sul quale si innalza il Monte Analogo. Il basamento di questo territorio è formato da materiali che hanno la proprietà di curvare lo spazio intorno a sé in modo tale che tutta la regione sia rinchiusa in un guscio di spazio curvo.

rené daumalPer trovare un luogo inaccessibile è necessario preparare gli esploratori insegnando loro a scardinare l’ordine del pensiero convenzionale e ad invertire l’assetto degli elementi. Il principale maestro è naturalmente Sogol, ma all’interno del testo vengono inserite sapientemente delle storie leggendarie che si prestano a tale scopo. Ad esempio la Storia degli uomini-cavi e della rosa-amara dove si contrappongono i termini vuoto-pieno e quello del doppio. Gli uomini-cavi sono appunto vuoti, ma vivono all’interno della montagna, dunque nel pieno, sono l’inverso degli uomini e ogni uomo ha il suo doppio in un uomo-cavo, entrambi si ricongiungono al momento della morte: (…) ogni uomo vivente ha nella montagna il suo uomo-cavo, come la spada ha il suo fodero, come il piede ha la sua impronta, e che, alla morte, essi si ricongiungono. Nel quarto capitolo un altro mito narra di una separazione dall’Unico e del desiderio che ogni tanto riaffiora in ogni uomo di ritornare alla propria origine.

Daumal è uno scrittore che si è interessato parecchio alle dottrine esoteriche, alle religioni orientali, ha studiato il sanscrito e si è dilettato a tradurre testi sacri indiani. Nel 1928 fonda insieme ad un gruppo di amici la rivista letteraria Le Grand Jeu della quale usciranno solo tre numeri. L’intento è quello di esplorare l’inconscio con l’ausilio di qualsiasi mezzo, droghe comprese, pur di trovare quella breccia che consenta il passaggio attraverso dimensioni normalmente insondabili. Determinante per lui fu conoscere Alexandre de Salzmann (Pierre Sogol nel libro) che, in quanto discepolo di Gurdjieff, gli permise di avvicinarsi alle tecniche psicofisiche elaborate dal maestro, figura eminente tra i cultori del misticismo e delle scienze occulte dell’epoca. Ma anche gli studi di René Guénon sull’India furono per lui di importanza fondamentale.

Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene.

Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.

E in questo rincorrersi di raffigurazioni speculari non può mancare per completamento simbolico l’immagine della scalata che al rientro diventa discesa. Una volta iniziata l’ascesa del Monte Analogo ad ogni tappa ci si installa in un campo e prima di proseguire in altezza bisogna ridiscendere al campo precedente per preparare chi si appresta a salire. In tal modo Daumal, attraverso l’idea che ogni uomo è responsabile del suo simile, dà voce a una sua convinzione, ovvero che esiste un legame necessario tra il progresso spirituale di ogni essere e l’aiuto che egli offre agli altri. Salita e discesa sono dunque complementari e noi siamo tutti collegati e concatenati, come una lunga cordata di alpinisti che si arrampica sulle pareti scoscese per raggiungere la vetta.

Tieni l’occhio fisso sulla via della cima, ma non dimenticare di guardare ai tuoi piedi. L’ultimo passo dipende dal primo. Non credere d’essere arrivato solo perché scorgi la cima. Sorveglia i tuoi piedi, assicura il tuo prossimo passo, ma che questo non ti distragga dal fine più alto. Il primo passo dipende dall’ultimo.

Daumal usa l’alpinismo non soltanto come disciplina sportiva, ma anche come perfetta metafora di disciplina interiore. In montagna ci si deve assumere la responsabilità dei propri atti perché porre un piede in fallo, essere sventati e imprudenti può mettere a repentaglio non soltanto la propria vita, ma anche quella degli altri. Così nel viaggio iniziatico si è soli, ma al tempo stesso non ci si deve dimenticare di tutto il resto, della nostra origine dall’Unico, né distrarsi mai dalla meta.

Il mio Superiore aveva detto bene: io soffro di un bisogno inguaribile di capire. Non voglio morire senza aver capito perché ho vissuto. E lei, ha mai avuto paura della morte?

Frugai in silenzio nei miei ricordi, ricordi profondi dove le parole non erano ancora entrate. E dissi con difficoltà:

Sì. Circa all’età di sei anni, avevo sentito parlare di mosche che pungono le persone durante il sonno; qualcuno aveva detto per scherzo che “quando ci si sveglia si è morti”.

Come ogni viaggio mistico che si rispetti, inevitabile è l’incontro con la morte. La civiltà occidentale è abituata a temerla e a fuggirla, ma chi inizia il percorso attraverso le profondità dell’animo sa che fa parte della vita, del resto tutti i riti d’iniziazione si basano su una morte rituale che porta alla rinascita e dunque alla vita. Daumal non riesce a terminare il viaggio simbolico descritto nel libro, ma si tratta di un’esperienza che comunque non può essere portata a termine quando si fa riferimento a vette definitive, sarà perché non c’è nulla di veramente conclusivo, o forse perché nel momento in cui si raggiunge la cima l’esperienza terrena non può che finire e non si può più raccontarla con la parola. Il viaggio è sempre un continuum che si estende al di là dei confini che ci sono noti, per il resto ognuno deve trovare la propria porta da attraversare.

E voi, che cosa cercate?

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Storia di un manichino di parrucchiere. Peregrinazioni di una coscienza che vive i propri sogni.

copertinaL’architetto moscovita M., che aveva costruito uno dei più frequentati caffè-ristorante della capitale ed era conosciuto nei circoli cittadini soprattutto per le vicende della sua vita privata nello stile delle memorie di Casanova, un bel giorno, passando accanto a un bar del viale Tverskij, si rese conto di essere ormai vecchio.

[] Tutti i propositi che fino a poco prima avevano agitato il suo cuore gli apparvero banali, ripetuti centinaia di volte fino all’estenuazione, e persino l’incontro serale che egli ricercava da chissà quanti mesi e che avrebbe dovuto rappresentare un nuovo importante evento negli annali della sua esistenza, gli sembrò all’improvviso inutile e fastidioso… Le foglie autunnali soltanto, che cadevano dagli alberi per finire sotto i piedi dei passanti serali, infondevano nella sua anima una certa qual amara mestizia.

Così inizia il racconto di Aleksandr Čajanov (1888-1939), Storia di un manichino di parrucchiere (1918) che insieme ad altri quattro doveva far parte di un volume intitolato Novelle fantastiche, che però non verrà mai pubblicato. Čajanov fu un economista di fama internazionale, ma i suoi interessi spaziavano in tutti i settori dell’arte e la sua scrittura è talmente raffinata e affascinante ch’egli sembra non avere fatto altro nella vita che scrivere. Invece si occupò anche di politica, della storia e topografia di Mosca, fu un esperto bibliofilo, aveva una passione per le incisioni che collezionava ed era incisore egli stesso. La sua attività principale tuttavia determinò il suo destino. Arrestato nel 1930 con l’accusa di avere congiurato contro lo stato sovietico a causa delle sue ardite teorizzazioni in campo economico e sociale, fu condannato a cinque anni di carcere. Alla fine del periodo detentivo fu inviato al confino, ad Alma-Ata per continuare a svolgere la sua attività di docente di economia agraria. Tuttavia, essendo ormai segnalato come sovversivo, nel giro di pochi anni venne dichiarato nemico del popolo, arrestato nel 1937 e fucilato nel 1939.

Čajanov dedica il racconto a E.T.A. Hoffmann, maestro del fantastico e suo ispiratore. Un autore che esercitò una grande influenza su scrittori come Nodier e Nerval, naturalmente Poe, ma anche in Russia su Dostoevskij e Gogol. Le caratteristiche più note di Hoffmann, ovvero di far entrare nel mondo reale quello irreale degli eventi inspiegabili, l’ossessione, il sogno più vicino all’incubo, il perturbante, come aveva scritto Freud, si ritrovano in forma più stilizzata anche in questo racconto di Čajanov, dove l’architetto moscovita viene colto da febbrile passione per un manichino di cera, visto nella vetrina di un parrucchiere. L’io delirante e frammentato si propaga per il mondo alla ricerca spasmodica del corrispondente fisico del modello, una sorta di invasamento pervade l’animo dell’uomo portandolo alla rovina.

 

All’improvviso si immobilizzò, restando di sasso. La ben nota sensazione che provava all’approssimarsi di una passione sconvolgente fece fremere tutto il suo essere. Davanti a lui c’era il «Grande salone moscovita del maestro parrucchiere Tjutin», e attraverso il vetro appannato di una grande vetrina lo fissava un manichino di cera dalla fulva chioma.

[] Malgrado una certa rozzezza di esecuzione, in ogni particolare si palesava la somiglianza con un modello in carne ed ossa. Era perfettamente evidente che quella statua di cera corrispondeva a un originale vivo, stupendo, meraviglioso. Tutti i sogni di Vladimir sull’essenza ultima del femminino, su quel non so che rispetto al quale le donne precedenti erano state soltanto una lontana approssimazione, sembrava si fossero calati in quel volto.

Vladimir scopre che in realtà il manichino che tanto lo affascinava era stato segato e che, in origine, riproduceva l’effigie di due gemelle siamesi, le sorelle Henrichson e con esse si apre un altro tema caro ad Hoffmann, quello del doppio. Vladimir dunque parte alla ricerca della fulva Afrodite, la gemella che aveva scatenato in lui la passione, associandola alla dea dell’amore, della bellezza, della sensualità. L’elemento irreale, il manichino di cui si innamora, si inserisce nella realtà, il corrispondente umano e i due piani si intrecceranno sempre più fino a sconfinare in un’altra dimensione, quella dell’alienazione.

Era come se tutto ciò che ella diceva o faceva non fosse autentico, ma premeditato, proferito soltanto per cortesia nei confronti dell’interlocutore, e che le interessasse assai poco. Il suo viso, solo apparentemente animato, trasmetteva un senso di gelo, e gli occhi immensi si velavano spesso di una torbida, plumbea lucentezza, sembrava che da qualche parte, chissà dove, al di fuori del controllo dell’interlocutore, in lei pulsasse un’altra vita, allettante, con un suo contenuto profondo.

 

Trovate le gemelle, Kitti e Berta, scopriamo che sono perfettamente speculari, anche caratterialmente, la prima saggia, l’altra ingestibile e ovviamente è quest’ultima a scatenare la passione nell’architetto. Ma c’è un ulteriore doppio che compare nella storia, Prospero, lo scultore che modella i manichini di cera. Anche lui si innamora perdutamente di Berta, ma quando scopre che è il fratellastro delle gemelle non regge il colpo e dopo un logoramento incessante, finisce con l’impiccarsi. Berta, a sua volta, si ammala di febbre nervosa e da quel momento il suo lato oscuro prevale.

Il fantastico entra di nuovo nel mondo reale attraverso l’arrivo dell’architetto moscovita che irrompe come una presenza quasi diabolica nella vita delle sorelle.

Sembrava che lo spirito di Prospero rivivesse in quel nordico, sembrava che il potere misterioso esercitato dal nostro defunto infelice fratello sull’anima di Berta fosse stato da qualcuno affidato a quel pallido uomo dai modi felini. Vane furono le mie parole come pure gli ammonimenti, le notti insonni e le lacrime di entrambe che inumidirono il cuscino comune, i giuramenti pronunciati sul fare dell’alba. La passione divampò, l’impetuoso torrente trascinò via con sé tutto, e persino io, incatenata a mia sorella dalla deformità, ero chissà come stranamente travolta da quelle onde.

 

Il doppio in letteratura ha avuto sempre un posto privilegiato, forse perché è un tema che si ritrova fin dagli albori della storia dell’umanità, connesso com’è all’inquietante rapporto tra il corpo e l’immagine di esso, ombra o riflesso che sia, e la morte. Čajanov da raffinato incisore quale era, cesella elegantemente tutti gli spunti che coinvolgono qualsiasi indagatore dell’animo umano e dunque ogni attento lettore, che è inevitabilmente anche un ricercatore.

Un altro spunto inserito in modo apparentemente casuale nella narrazione è lo specchio, anch’esso archetipo, simbolo, oggetto dai poteri magici inscindibile dal tema del doppio. Di conseguenza si presenta il tema della perdita d’identità e la sensazione di avere smarrito una parte di sé in un altrove non specificabile.

Vladimir si sentiva come un manichino, una marionetta che una mano invisibile reggesse per i fili. Gli amici non lo riconoscevano più.

 

Doppio e morte sono anch’essi inscindibili. Data la particolarità del doppio nel racconto, ovvero le sorelle siamesi, siamo già di fronte ad un’immagine simmetrica, corroborata dall’antitesi caratteriale, un doppio si contrappone all’altro divenendo il suo persecutore. Il secondo doppio è dato da Vladimir-Prospero rivali a distanza, innamorati della stessa donna. La morte è inevitabile per ricondurre alla sanità e all’unicità. Kitti e Berta vengono separate chirurgicamente e il doppio malato morirà permettendo però a quello sano di ritrovare la parte mancante attraverso Jeannette, la nipotina, mentre i due uomini, che incarnano gli impulsi distruttivi della passione, sono destinati all’inevitabile fallimento per cui Prospero è colui che muore, mentre Vladimir deve adeguarsi alla disfatta e tornare proprio in quel mondo reale al quale aveva cercato di sottrarsi all’inizio della storia e del viaggio.

Tu leggi la tua vita, non la scrivi: ignori la fine della storia.

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Tramonti fatali. A sud del confine, A ovest del sole.

copertinaLa nostra vita è disseminata di porte temporali attraverso le quali tante volte passiamo senza nemmeno rendercene conto, perché la mente è sempre pronta a riordinare le coordinate spazio-temporali nel modo più vicino possibile all’idea di realtà che ci siamo costruiti. Murakami Haruki in A sud del confine, A ovest del sole (1992) mantiene la tradizione che troviamo in tutti i suoi libri, ovvero quella di trasportarci con leggerezza da una dimensione all’altra, con la naturalezza tipica degli eventi quotidiani e senza dare troppe spiegazioni a proposito della stranezza di certi avvenimenti che alla fine rimangono, com’è peculiare della scrittura giapponese, “aperti”, dal momento che è impossibile esaurire tutte le possibilità e dunque fornire una soluzione unica che valga per tutti.

Per noi occidentali è difficoltoso accettare l’idea di un libro che propone misteri che poi non vengono risolti, tuttavia la capacità di Murakami come narratore è tale da lasciare il lettore ugualmente affascinato e perfino arricchito, più che da un libro con domanda e risposta, sia perché il lettore diventa co-creatore e sia perché si viene in contatto con quella parte di noi che è oltre la materia e che in fondo è la nostra componente principale benché spesso ce ne dimentichiamo.

Sono nato il 4 gennaio 1951. Nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare, ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime – «inizio».

Il libro racconta la storia di Hajime, un quarantenne di successo che gestisce due jazz club a Tokio, a partire dall’infanzia segnata dal fatto di essere figlio unico e dall’incontro, a dodici anni, con Shimamoto, anche lei figlia unica e con la quale stabilirà un legame profondo, che si manterrà nel tempo attraverso il ricordo, malgrado i due si separeranno e non si vedranno per più di vent’anni.

Se non fosse piovuto o se io non avessi avuto l’ombrello (cosa possibilissima visto che prima di uscire dall’albergo quel giorno ero stato indeciso se portarmelo o no), non avrei incontrato mia moglie. E se ciò non fosse avvenuto, a quest’ora probabilmente lavorerei ancora nella casa editrice di libri scolastici, e la notte, appoggiato al muro della mia camera, berrei parlando da solo. Quando ci penso mi rendo conto che viviamo in un numero veramente limitato di possibilità.

Il viaggio di Hajime alla ricerca di sé ci mostra un uomo che fino a quel momento della vita aveva limitato le sue possibilità di cambiamento ad una sorta di fatalismo immobile, quello che lascia le persone chiuse in una forma che si adatta ai mutamenti del tempo, ma che nella sostanza non cambia. Man mano che procede però è costretto ad accorgersi che certi avvenimenti di cui ci facciamo carico in verità appartengono al regno di una sorta di casualità voluta. Nel senso che magari siamo noi i motori che portano a una determinata situazione, ma non i creatori della stessa che si sarebbe verificata comunque, affinché un determinato soggetto potesse compiere quell’esperienza.

Certo che il tempo cambia le persone in vari modi. Non so che cosa ci sia stato allora tra te e lei, ma comunque sia andata, tu non hai nessuna colpa. A chi più, a chi meno, è capitato a tutti di avere un’esperienza del genere, perfino a me. Dico sul serio, è successo anche a me. Così vanno le cose a questo mono! La vita di una persona appartiene a quella persona. Non ci si può sostituire a lei e assumersi la responsabilità della sua esistenza.

Benché Hajime avrà dalla vita ciò che desidera, un lavoro che gli piace, una moglie che ama e due bambine deliziose, egli incarna la necessità della ricerca continua, insita nell’uomo, che sente sempre che gli manca qualcosa, quell’assoluto che non può mai raggiungere perché lo cerca nel luogo sbagliato. Hajime crede che il suo assoluto sia Shimamoto e vive creando un vuoto dentro di sé che è il vuoto dell’assenza, ma quando la ritrova e pensa di potere finalmente colmare la propria esistenza, dovrà fare i conti con quanto di artificioso si era insinuato nel ricordo e quanto di distruttivo, oscuro e inafferrabile ci sia nella Shimamoto che rivede. A volte viene perfino il dubbio che la ritrovi davvero nella realtà, sembra appartenere piuttosto ad un mondo di ombre, ad una dimensione differente, che a tratti la risucchia e dalla quale emerge solo per costringere Hajime a riprendere in mano la sua vita.

Conservavo ancora il ricordo vivido di ciò che vidi in fondo alle sue pupille in quel momento: uno spazio buio, duro come il ghiaccio sotterraneo. E c’era nei suoi occhi un silenzio così profondo da assorbire qualsiasi suono e impedirgli di riemergere. Solo silenzio, gelido silenzio.

murakami harukiMetaforicamente è come se Hajime e Shimamoto fossero le due facce della stessa medaglia, in una sorta di mitologia personale, le due metà vengono separate e la vita scorre nel tentativo di ricongiungersi. Quando diventiamo spettatori della nostra vita raccontandocela ci accorgiamo di quante sfaccettature ci appartengano e compongano la superficie apparente che costituisce la nostra storia. A volere ricomporre il tutto, inevitabilmente ci si rende conto di quanto la realtà sia fragile ed effimera, una patina, un fantasma che aleggia senza poter mai prendere consistenza, l’ombra caduca di un’esistenza altra che ci sfugge. Per questo ci aggrappiamo a strutture mentali in realtà inesistenti, per non perderci in quel vuoto inconsistente che l’esperienza umana ci impedisce di comprendere, ma verso il quale non possiamo fare a meno di sentirci attratti, come il simile riconosce il proprio analogo, la nostra vera essenza non è certo la materia.

La nostra memoria e le nostre sensazioni sono troppo incerte e unilaterali e quindi, per provare la veridicità di alcuni fatti ci basiamo su una “certa realtà”. Ma quella che per noi è la realtà, fino a che punto lo è davvero e fino a che punto è quella che noi percepiamo come tale? Spesso è addirittura impossibile distinguere tra le due. Quindi, per ancorare nella nostra mente la realtà e provare che sia tale, abbiamo bisogno di un’altra realtà attigua che possa relativizzare la prima. Questa realtà attigua però, necessita come base, a sua volta, di una terza. Questa catena all’interno della nostra coscienza continua all’infinito ed è proprio grazie ad essa che noi esistiamo. A un certo punto però, può accadere che la catena si spezzi e ci faccia confondere: non capiamo più se la realtà si trovi da questa parte della catena o dall’altra.

L’insegnamento che se ne trae è che a voler scandire il tempo in passato e futuro che rendono inaccettabile il presente non si fa altro che limitare la propria esistenza infarcendola di necessità fittizie e vuoti incolmabili. Ciò che conta è l’attimo in cui sai di essere presente a te stesso, in quel momento quello che ti circonda diventa esattamente tutto ciò di cui hai bisogno.

Il titolo del libro è diviso in due parti, la prima è il titolo di una canzone, South of the Border (a sud del confine), una canzone la cui interpretazione Murakami attribuisce erroneamente a Nat King Cole, e che parla di un uomo che lascia andare via l’amore della sua vita, salvo poi pentirsi quando ormai è troppo tardi, mentre la seconda si riferisce ad una malattia che colpisce i contadini che vivono in Siberia, detta appunto isteria siberiana.

Giorno dopo giorno, vedi il sole sorgere a est, attraversare la volta celeste e tramontare a ovest e alla fine dentro di te qualcosa si spezza e muore. Lasci a terra la zappa e cominci a camminare con la mente svuotata da ogni pensiero, verso ovest, a ovest del sole. Continui a camminare per giorni, senza mangiare né bere, come un invasato. E un giorno ti accasci al suolo e muori. È questa l’isteria siberiana.

È Shimamoto che ne parla a Hajime, chiara indicazione di una fine inevitabile, sintesi di una vita che non può ricomporre i pezzi mancanti altrimenti finirebbe per condurre alla follia, ad un’esistenza alterata dall’intromissione di troppi elementi, salti nel tempo, piccole morti quotidiane, tutti tasselli che rendono impossibile ritrovare quello si è perduto, semplicemente perché non esiste più, così come nemmeno quello che eravamo noi esiste più. Il ricordo nostalgico deve rimanere inarrivabile, senza raggiungere mai il momento presente, altrimenti darebbe a sua volta quel senso di incompletezza che porterebbe a una nuova ricerca, a un nuovo vuoto da colmare, a volte perfino alla morte, mentre il suo destino è rimanere ancorato in quel serbatoio di potenzialità irrealizzate di cui è piena la vita. Il “tutto” insomma sta sempre nella “possibilità”.

Hajime, purtroppo a volte accadono fatti per cui non si può più tornare indietro. Per quanti sforzi si facciano, è impossibile annullare tutto e ripartire da zero. Se in quel momento qualcosa è andato storto, anche di pochissimo, rimarrà per sempre così.

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Morte dell’inquisitore. Fra Diego La Matina allo Steri.

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Pacienza

Pane e tempo.

Queste parole, graffite sul muro di una cella del palazzo Chiaramonte, sede del Sant’Uffizio dal 1605 al 1782, Giuseppe Pitré riesce a decifrare nel 1906: insieme ad altre di disperazione, di paura, di avvertimento, di preghiera; tra immagini di santi, di allegorie, di cose ricordate o sognate. [] La scritta egli così la commenta:

Tre cose purtroppo indispensabili per non disperarsi, per poter vivere e attendere; nelle quali non occorre cercare un significato meno che sincero di rassegnazione, poiché il pensiero d’una rivincita o d’una vendetta col Tribunale sarebbe stato sogno di mente inferma. Pensieri simili saranno stati del tempo, ma non del luogo.

Eppure, nell’introduzione al suo studio, Pitré ha ricordato un uomo capace di nutrire, in quel luogo, pensieri di rivincita e di vendetta: il racalmutese fra Diego La Matina. Capace non solo di nutrirli quei pensieri, ma di attuarli sull’inquisitore in persona, l’illustrissimo signor don Giovanni Lopez de Cisneros.

copertinaLeonardo Sciascia (1921-1989) apre Morte dell’inquisitore (1964) parlando del lavoro di Giuseppe Pitré che, nei primi anni del Novecento, per primo fu consultato dopo la scoperta delle iscrizioni sulle pareti delle celle di palazzo Steri, a Palermo e, partendo da quei luoghi, ripercorre la storia di Fra Diego la Matina (1622-1658), imprigionato tante volte tra quelle mura finché non divenne protagonista di un drammatico avvenimento, ovvero l’uccisione del proprio inquisitore, monsignor de Cisneros, circostanza che lo portò alla morte sul rogo.

Le carceri di palazzo Chiaramonte (attualmente sede del Rettorato dell’Università) detto Steri, da Hosterium (palazzo fortificato), sono adesso aperte al pubblico dopo un attento lavoro di restauro curato dall’Università di Palermo, che ha portato alla luce i graffiti dei prigionieri dell’inquisizione. Il palazzo fu infatti, dal 1605 al 1782, sede del Tribunale dell’Inquisizione del Sant’Uffizio. Nella parte inferiore furono costruite le celle e la sala delle torture, mentre nella piazza antistante (piazza Marina), si celebravano gli autodafé (atti di fede). La ricca documentazione che si trova su quelle pareti rivela un circuito di dolore e sofferenza, ma attesta anche l’origine dei condannati, alcuni dei quali erano artisti, poeti, studiosi, cartografi, insomma chiaramente possibili detrattori di un pensiero religioso che voleva il dominio e che grazie alla solidarietà tra potere temporale e spirituale, d’accordo col braccio secolare, aveva trovato un metodo infallibile per eliminare scomodi avversari e miscredenti.

chiaramonte-steriLa storia di Fra Diego viene ricostruita da Sciascia con fatica vista la scarsità delle fonti rimaste, in particolare a causa della perdita della documentazione ufficiale dopo l’incendio dell’archivio, nel 1783, voluto dal viceré Caracciolo, che distrusse tutti gli atti del tribunale.

Per quanto siano frammentarie le fonti, dal libro trapela la personale simpatia dello scrittore nei confronti di un personaggio che riuscì a ribellarsi ad un sistema ingiusto, che faceva della tortura un vanto e che portava avanti crudeltà e mortificazioni quotidiane, definendolo precisamente un uomo che tenne alta la dignità dell’uomo.

I cronisti che riferiscono gli avvenimenti sono certamente parziali, il dottor Vincenzo Auria e padre Girolamo Matranga, entrambi uomini del Sant’Uffizio raccontano l’aggressione all’inquisitore dal loro punto di vista. Il primo fa apparire Cisneros in odor di santità, come un buon padre di famiglia che si era recato dal proprio figliolo per salvarlo e da questi viene invece condotto a morte iniqua, ma malgrado ciò lo perdona, mentre il secondo fa un resoconto, per quanto fazioso, di sicuro più vicino alla realtà, scrive Sciascia:

Racconta infatti il Matranga che l’inquisitore era andato alle carceri segrete alla solita ora, per svolgere la solita opera a favore dei rei: la quale espressione è di vasto contenuto, e va dal discorso persuasivo ai tratti di corda. Dice ancora che fra Diego era stato condotto davanti all’inquisitore, non che gli era venuto incontro. Da questi due elementi possiamo attendibilmente dedurre che stava per subire un interrogatorio con relativa tortura.

In quanto alla santa morte di monsignor de Cisneros, il Matranga dice soltanto che altre parole non pronunciava che di rassegnazione alla volontà divina: e così nell’eterna Patria se ne volò a ringiovanirsi. Niente perdono all’empio, niente straordinario amore.

Quale fosse l’eresia iniziale di fra Diego forse non si saprà mai, si sa però che per tre volte fu condannato e poi rilasciato dopo avere abiurato, la quarta volta riuscì a fuggire, ma scoperto e incarcerato per la quinta volta nel 1657 fu ancora sottoposto a tortura. La storia che si tramanda racconta che in un momento di esasperazione colpì l’inquisitore con le manette di ferro finché non gli ebbe fracassato il cranio. Cisneros morì alcuni giorni dopo, non senza avere prima perdonato il suo assassino, rendendolo in tal modo ancora più colpevole.

Sciascia diceva, a proposito di Morte dell’inquisitore, che si trattava di un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa, ma anche se non ha potuto completarlo in vita, dopo la sua morte qualcosa di nuovo effettivamente è venuto alla luce. A fare la scoperta è stato uno storico dell’Università di Catania, Vittorio Sciuti Russi, che ha recuperato un documento nell’Archivio storico nazionale di Madrid, la lettera dell’inquisitore Escobar all’inquisitore generale Diego de Arce Reinoso nella quale chiede la canonizzazione di Cisneros e dove riferisce i fatti con quella precisione che è stata poi negata a chiunque sia venuto a conoscenza di quell’episodio. Il busillis, come direbbe Sciascia, sta tutto nel modo in cui fra Diego aggredì Cisneros, fino ad ora abbiamo letto che lo colpì con le manette, mentre in questa lettera si scopre che usò un attrezzo di ferro, cosa che fa dedurre che Cisneros si apprestava a torturare il prigioniero e non a svolgere un colloquio per salvargli l’anima con le parole della fede, informazione che avrebbe ridimensionato parecchio la figura di inquisitore caritatevole e in lista d’attesa per la beatificazione.

A Madrid l’idea di santificare Cisneros piace, tuttavia prudenza vuole che si allunghino un po’ i tempi e che si proceda solo dopo avere processato nuovamente fra Diego e dopo averlo giustiziato, in tal modo si evitava la preoccupazione di un’eventuale inchiesta da parte della Santa Sede con relativa testimonianza del frate. Alla luce del carteggio rinvenuto negli archivi di Madrid si comprende anche meglio quale potesse essere lo stato d’animo di fra Diego dopo i continui trasferimenti in carcere, gli interrogatori, le torture e soprattutto perché malgrado nel processo del 1656 la condanna al rogo fosse stata mutata in reclusione perpetua in un convento, la pena veniva appositamente ritardata per punire il suo cuore ribelle trattenendolo ancora nelle segrete dello Steri, un luogo che non poteva fare altro che esacerbarlo ulteriormente.

Nel 1658 venne allestito lo spettacolo pubblico durante il quale dovevano essere giudicati i colpevoli di eresia ed anche Fra Diego La Matina. Direttore fu nominato l’arcivescovo di Monreale Luigi Alfonso de Los Cameros che si diede alacremente ad esperire il processo a fra Diego La Matina e agli altri trentuno rei; e a preparare la gran festa dell’Atto di Fede. I maestosi lavori ebbero inizio e furono (come al solito) a carico del fisco reale e non della Chiesa: un vasto anfiteatro in legno, composto da una gradinata di nove ordini, da quattro grandi palchi sovrastanti, da un palchetto per i musici e da un altare, fu eretto nella piazza del duomo. Ma non mancarono nemmeno stanze costruite dietro ai palchi come luoghi di ristoro per i ministri, le dame e tutto il corteo di persone “importanti” decorate con velluti, seta, oro, candelieri d’argento, oltre ai cibi pregiati, alle bevande…

Il 16 marzo iniziò la lunga notte di fra Diego incatenato e sorvegliato costantemente da prestanti filantropi fermamente intenzionati a convertirlo anche a costo di rimaner svegli per tutta la nottata.

È una delle più atroci e allucinanti scene che l’intolleranza umana abbia mai rappresentato. E come questi nove uomini pieni di dottrina teologica e morale, che si arrovellano intorno al condannato (ma ogni tanto vanno a ristorarsi nell’appartamento dell’alcalde), restano nella storia del disonore umano, Diego La Matina afferma la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà.

Come abbia risposto a tanta carità, come abbia infranto le acute proposizioni e i sottili argomenti dei teologi, non sappiamo. Certo è che il padre Matranga e i suoi colleghi, anche se ristorati dalle squisite vivande con tanta liberalità offerte dall’alcaide, fecero una nottataccia; e lo spettacolo dell’indomani forse non lo godettero appieno, immersi nella nebbia del sonno.

Alla fine, con il sopraggiungere dell’alba, tutti si resero conto che era inutile continuare e che ormai il destino di fra Diego era segnato, era il 17 marzo 1658, giorno della festa e pioveva, c’era il rischio che tanti preparativi andassero perduti e così per prendere tempo si decise di celebrare una serie di messe. Prima di mezzogiorno il cielo era libero e si poté finalmente iniziare la cerimonia. Il popolo partecipava quasi per intero, nella maggior parte dei casi non certo per piacere o per reale interesse, quanto per costrizione, per paura di ritorsioni varie considerato anche il numero delle delazioni e la facilità con la quale si finiva nelle mani di quegli uomini “caritatevoli”.

La descrizione del Matranga è minuziosa e Sciascia ne alleggerisce il linguaggio arcaico, lima le ridondanze e mette in ridicolo certi comportamenti che si vogliono compassionevoli mentre invece sono figli della solita prevaricazione.

Giunti infine al piano di sant’Erasmo dove era stata allestita la catasta di legna che era già sera, fra Diego vi fu posto sopra (con tutta la sedia alla quale era rimasto incatenato dal giorno prima) e chiese di parlare al teatino Giuseppe Cicala: Io muterò sentenza, e Fede, ed alla chiesa cattolica mi sottometterò– disse fra Diego –se vita corporale mi darete. Rispose il teatino che la sentenza era ormai impermutabile. E fra Diego –A che dunque disse il Profeta: Nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur, et vivat?– E rispondendo il teatino che il profeta intendeva la vita spirituale e non quella corporale, fra Diego disse – Dunque Dio è ingiusto.

[] battute che a noi pare di dover considerare non come segno di cedimento, di paura, da parte del condannato; ma come l’estremo modo di dar prova al popolo dell’inflessibile ferocia di una fede che proclamava di ispirarsi alla carità, alla pietà, all’amore.

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Dell’effettiva eresia di fra Diego dunque si sa poco o nulla, in Sciascia prevale la teoria che si trattava di qualcosa non tanto relativo alla religione quanto alla sfera sociale, che fosse un ribelle potenzialmente pericoloso, un elemento destabilizzatore. Lo storico Luigi Natoli, nella sua versione da romanzo d’appendice, con il nome di William Galt, propone una figura rielaborata di fra Diego ripresa dalla tradizione orale che vuole il giovane accusato di delitto d’onore, ovvero di avere ucciso l’uomo che aveva stuprato la sorella, ma Sciascia accantona subito questa ipotesi concentrandosi invece sul ricorrente tenace concetto che a quanto pare compare sempre nelle varie cronache. Certamente affermare che Dio è ingiusto non poteva che condurre su una via senza ritorno, se poi si pensa che siamo nel XVII secolo diventa affermazione ancora più grave che pochi si sarebbero sentiti di assecondare. Sciascia perciò fa sua l’ipotesi che egli agitò il problema della giustizia nel mondo in un tempo sommamente ingiusto. E ciò spiega il silenzio dei suoi contemporanei e l’orrore. Fra Diego dunque non nega Dio, ma lo accusa, dal momento che la società è ingiusta, come le leggi che la governano e dunque la stessa vita lo è e perfino la religione non fa che perpetrarla perciò Dio stesso, permettendo l’ingiustizia del mondo, diviene a sua volta ingiusto. In tal senso diventa un personaggio scomodo, pericoloso, che crea proseliti, che lotta per i diritti dei più deboli e contro l’usurpazione dei loro beni, tutto questo lo rende vittima ideale dell’imposizione, dell’ingiustizia, della vessazione, e per quanto si ribelli ogni gesto risulta vano poiché egli è condannato a portare sulle proprie spalle non soltanto il suo, ma il destino dell’uomo e il dramma insito in ogni esistenza.

Senza metafisica e senza barocchi orpelli, in tempi più vicini a noi, un uomo di intendimenti non dissimili da quelli del Bertino e del Matranga ordina: il cervello di quest’uomo non deve più funzionare.

Un dramma che si ripete, che forse si ripeterà ancora.

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Potete visitare le carceri dello Steri tutti i giorni dalle 10:00 alle 18:00. Fino a novembre l’Associazione “Amici dei musei siciliani” organizza visite con l’ausilio di guide d’eccezione come Carmela e Barbara che vi condurranno attraverso le storie dei tanti personaggi “ospitati” all’interno delle celle che hanno decorato con disegni, carte geografiche, scritte di denuncia, poesie e tutto quello che poteva lasciare un accorato segno del loro triste passaggio tra quelle mura. Una stanza è dedicata a fra Diego La Matina e alla sua storia di ribellione e morte.

Di recente Ruben Monterosso e Giovanni Pellegrini hanno realizzato un cortometraggio documentario tratto dal libro di Leonardo Sciascia e dal titolo omonimo.

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Anchee Min. Il pavone rosso.

il pavone rossoIl pavone rosso di Anchee Min narra la storia dell’ultima moglie di Mao, Jiang Qing (1914-1991) e ne fa un ritratto impietoso sebbene altalenante fra la comprensione e la condanna. Si tratta infatti di un personaggio perfidamente ambiguo che lascia libero sfogo alle sofferenze subite in passato infliggendo stilettate mortali a una bella fetta di umanità, ma senza strizzare per questo l’occhio al marito che pare ben più calcolatore e brutale di lei, avendo ai suoi piedi masse adoranti di zelanti formiche, pronte a sacrificare la loro stessa vita per il sogno di un altro, incapaci di rendersi conto di non avere affatto una specie di divinità in sembianze umane di fronte, ma semplicemente un dittatore seppure dal carisma travolgente.

Quando ero piccola, mia madre mi diceva che dovevo considerarmi figlia dell’erba – nata perché mi si calpestasse –. Invece io mi vedo come un pavone in mezzo alle galline. Non mi si sta giudicando equamente. Fianco a fianco eravamo, Mao Zedong e io, eppure lui è considerato un dio e io un demone.

A suo modo Jiang Qing è pur sempre un’eroina che si ribella alle convenzioni, che non accetta la società che vuole le donne “figlie dell’erba” e che, come primo atto decisivo, si libera i piedi dalle fasce crudeli della tradizione che imponevano ancora alle donne dei piedi molto piccoli per fare un buon matrimonio. Tuttavia ciò che prevale in lei è l’egoismo e le sue non sono vere battaglie per l’emancipazione femminile in generale, ma soltanto per la sua.

Lo impara presto il dolore, lei. Quando ha quattro anni, la madre viene a fasciarle i piedi. La madre le dice che non può concedersi di attendere oltre. Promette che dopo, dopo il dolore, la ragazzina sarà bellissima. Si sposerà in una famiglia ricca e non dovrà camminare ma sarà portata in giro in palanchino. I piedi di nove centimetri a forma di loto sono simboli di prestigio e di classe.

La tradizione dei piedi fasciati ha origini antichissime. Dal punto di vista sociale è un modo per mostrare l’appartenenza ad un certo ceto: dal momento che le donne subivano una mutilazione che rendeva loro difficile camminare, un uomo che sposava una donna dai piedi piccoli dimostrava di essere agiato perché poteva permettersi di mantenere la moglie senza avere bisogno di aiuto. Ma alla base di questa crudele usanza, come sempre, c’è il solito assoggettamento delle donne ai voleri dell’uomo. Una donna virtuosa e desiderosa di contrarre un buon matrimonio che accettava la propria inferiorità intellettuale ed era pronta a isolarsi dal mondo, ad avere dei bellissimi piedi in miniatura, anche se inservibili al proprio scopo naturale, diventava la candidata perfetta. Ciò che più sconcerta è come le stesse donne si facciano promotrici di convenzioni schiaviste e invalidanti, obbedendo ciecamente a canoni di bellezza fissati ovviamente dai maschi e costringendo le proprie figlie a sacrificarsi a loro volta. Erano infatti le madri a fasciare i piedi alle bambine in modo da comprimerli il più possibile ripiegando le dita sotto la pianta. Questo procedimento faceva sì che spesso la carne si putrefacesse, oltre a dare un dolore persistente al quale le bambine dovevano reagire stoicamente. Il piede piccolo, detto loto d’oro, era creato per il piacere esclusivo del marito che manipolandolo si dedicava a pratiche erotiche che francamente fanno pensare più che a bellezza estetica e quant’altro a squallide forme di pedofilia latente.

Ricorda vividamente la propria lotta contro il dolore. Eroina del palcoscenico della vita reale, debuttò strappandosi dai piedi le bende che glieli imprigionavano. Se non c’è ribellione, non c’è sopravvivenza! È il suo grido alle adunate durante la Rivoluzione Culturale.

Il teatro ha in questo dramma un ruolo fondamentale, Jiang Qing riesce ad entrare, ancora giovanissima, nel teatro dell’opera di Pechino e da quel momento recitare la propria vita sarà il suo ruolo essenziale, tanto che è molto difficile distinguere i personaggi che interpreta dalla sua verità interiore.

Grotte, pulci, venti tremendi, cibo approssimativo, volti con denti guasti, uniformi grige, berretti con la stella rossa: sono queste le mie prime impressioni di Yan’an. La mia nuova vita comincia con una forma di tortura. Per sopravvivere mi proibisco di pensare che questo è il luogo dove in un anno sono morti di fame tre milioni di persone. Mi proibisco di pensare che i locali non hanno mai visto un cesso in vita loro e non hanno mai fatto un bagno, se non il giorno della nascita, del matrimonio o della morte, pochissime persone sanno la propria data di nascita e dove si trovi la capitale della Cina, gli abitanti di Yan’an si definiscono comunisti. Per loro è una religione. La ricerca della purezza spirituale li gratifica.

Jiang qingGiunta a Yan’an, la regione in cui vive Mao, una zona centrale poverissima e desolata, ben diversa dalla città cui lei è abituata, tuttavia riesce ad adattarsi e a mettersi in mostra con calma, ma in maniera incisiva, tanto che in breve tempo si farà largo nel cuore di Mao, riuscendo perfino a soppiantare la moglie-eroina della Lunga Marcia, He Zizhen, che gli aveva dato ben cinque figli. Mao poté sposarla solo nel 1939, ma Jiang Qing non fu di certo la tipica moglie sottomessa e tradizionalista, la sua passione per il teatro e il cinema ne facevano già un personaggio bizzarro e la sua sete di potere e il desiderio di mettersi sempre in primo piano ne completano la figura. La coppia avrà un’unica figlia, Li-Na. Anche come madre (e matrigna dei figli ancora vivi di Mao) lascia molto a desiderare, sembra che non ci possa essere altro ruolo che quello di se stessa e insopportabile è per lei l’ombra nella quale la costringe a vivere il marito, negandole un incarico pubblico attivo nella vita politica cinese, per molti anni del loro matrimonio.

Non c’è la minima traccia di gelosia nelle parole di Mao, ma in questo momento si pianta nel suo cuore il seme di Liu Shaoqi come potenziale rivale. In Cina nessuno si immaginava che Mao sarebbe stato capace di una distruzione di massa solo per invidia del talento di qualcuno. Nessuno aveva mai capito le sue paure. Trent’anni dopo Mao lancia la cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, in cui saranno perdute milioni di vite solo per aprirgli la strada.

C’è un trucco che la signora Mao non riesce a imparare da Mao: lui non soltanto riesce ad evitare di essere criticato per le proprie responsabilità nel delitto del secolo, ma impegna il popolo, perfino dopo la sua morte, a difendere, adorare e benedire la sua bontà.

Certo non fu un legame facile neanche per lei, Mao era infatti un uomo poco dedito all’igiene personale, goloso di un untuoso piatto a base di maiale, fumatore accanito e infedele a tempo pieno. La sua “cura” per la longevità era quella di deflorare vergini, attività alla quale si dedicava con impegno e che non smise nemmeno dopo avere contratto la sifilide che si rifiutava di curare, disinteressandosi totalmente del fatto di potere infettare le poverette che dovevano soddisfare il suo piacere, le quali, stupide oltre ogni dire, se ne facevano addirittura vanto, come se tale contagio potesse farle diventare parte della leggenda. Tutto questo se viene posto sotto la luce della crudele austerità cui era costretto il popolo, assume contorni ancora più grotteschi.

A mezzanotte del 13 gennaio 1967, nella Grande Sala del Popolo, Mao ha un affettuoso incontro con il vicepresidente Liu. Il giorno dopo Liu è arrestato e trattenuto la notte dalle Guardie Rosse. Non è la fine di Liu, ma è un bel colpo nello stomaco. Nel mondo di Mao si è in costante confusione e terrore.

Ed effettivamente la descrizione di una figura che rasenta il mito come avida, calcolatrice, lussuriosa, è veramente dura da digerire, ma alla fine non si tratta di niente di nuovo, chiunque gestisca un potere enorme non può essere infatti puro e altruista, pian piano comincia a credersi un semi-dio o comunque un intoccabile e per di più trova sempre un corteo di seguaci pronti a fare qualsiasi cosa pur di seguire un’Idea importante, anche se non gli appartiene, anche se si tratta di semplice luce riflessa, che tuttavia dà loro la possibilità di credere di dare un senso alla propria miserevole esistenza.

Durante tutta la Rivoluzione Culturale Mao fa credere a Jiang Qing che lei erediterà la Cina. Quel che le è nascosto è che Mao fa le stesse promesse ad altri, anche a quelli che lei considera nemici, Deng Xiaoping e il maresciallo Ye Jianying. Quando Deng viene convinto che il potere del paese è nelle sue mani, Mao di colpo passa le chiavi del potere a un altro.

La signora Mao conosce la tattica del marito meglio di chiunque altro. Ma in questa febbrile stagione crede di esserne esente. Si crede primo motore della salvezza di Mao. Interpreta la parte con tale convinzione che si perde. Sacrifica più di quanto non sappia.

Nel 1965 finalmente la signora Mao riesce ad ottenere quello che vuole ovvero una fetta di potere, sarà lei infatti la protagonista principale della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria diventando la vicedirettrice del Gruppo, mentre nel 1969 sarà eletta membro del Politburo del PCC (Partito Comunista Cinese). Ma non riuscirà mai ad ottenere una piena vittoria, a penetrare la compagine che la esclude da quell’aura da mito di cui tanto vorrebbe essere parte attiva, amata e rispettata come suo marito che pure lei sa essere pieno di difetti intollerabili.

Lei non dà per scontato il proprio potere. Non pensa di avere il controllo totale della propria vita. In fondo non si fida di Mao. Sa che Mao è capace di cambiare idea. E la mente gli si sta indebolendo. Quando la chiama per farsi aiutare a risolvere il problema dell’amante, ha forse dimenticato che lei è sua moglie? Dalla voce capisce che lo fa senza malizia. Il suo dolore è come quello di un bambino a cui hanno strappato il giocattolo preferito. È logico presumere che domani si giri e non la riconosca? La vecchiaia gli ha fatto aumentare la paranoia e lei si tiene in equilibrio sull’asse della sua mente. Essendo la signora Mao, non è mai senza nemici. Il prezzo del suo successo è che non esita più quando si tratta di eliminare gli avversari. Senza pensarci due volte, ora a mezzanotte chiama Kang Sheng per fargli aggiungere un nome all’elenco delle esecuzioni. Sta cercando in tutti i modi di eliminare le bocche che non vogliono restare chiuse. Teme che alla morte di Mao la sua lotta sarà come tentare di spazzare l’oceano con una scopa, che gli avversari se la mangeranno viva.

E così sarà. Alla morte di Mao, nel 1976, Jiang Qing sa che i suoi giorni sono contati ed infatti presto viene arrestata con l’accusa di essere a capo della cosiddetta Banda dei Quattro e di avere cospirato per rovesciare il governo cinese. Nel 1981 viene processata per le efferatezze compiute durante la Rivoluzione Culturale e condannata a morte, ma si ribella con violenza, sostiene di non essere stata giudicata con equità e di avere agito sotto gli ordini di Mao. Nel 1983 la pena di morte viene commutata in ergastolo. Nel 1991 sarà trovata impiccata nella casa dove si trovava agli arresti domiciliari, ma le autorità renderanno noto il suicidio solo nel 1993.

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Jorge Semprún. La scrittura o la vita. Il Male assoluto.

«È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza…»

Un sogno all’interno di un altro sogno, forse. Il sogno della morte all’interno del sogno della vita. O meglio: il sogno della morte, unica realtà di una vita che è essa stessa solo un sogno. Primo Levi esprimeva quell’angoscia comune con una concisione inarrivabile. Niente era vero all’infuori del campo. Il resto, la famiglia, la natura in fiore, la casa, solo breve vacanza, inganno dei sensi.

semprunJorge Semprún (1923-2011) è sopravvissuto ai campi di concentramento tedeschi, spagnolo di nascita, durante la guerra civile si rifugiò a Parigi e lì entrò a far parte della Resistenza antinazista, fu però catturato dalla Gestapo e, nel gennaio del 1944, deportato a Buchenwald come prigioniero politico. Ma si sopravvive davvero ad un’esperienza devastante come quella dei campi nazisti? Non credo che ci sia un termine adatto per descrivere chi è uscito “vivo” da quei luoghi dell’orrore, dove la stessa vita è diventata morte e il significato del linguaggio quotidiano è stato stravolto e ribaltato. Semprún crea La scrittura o la vita (1994) molti anni dopo la Liberazione e non si tratta del solito libro-cronaca di quei fatti terribili, ma di una riflessione profondissima che va al di là delle descrizioni, al di là degli eventi in sé, che si concentra su aspetti della natura umana e del pensiero che offrono una prospettiva ancora diversa rispetto a questo argomento sul quale forse pensiamo, sbagliando, che sia stato detto tutto il possibile.

Ad Ascona, nel Ticino, in un giorno d’inverno pieno di sole, del dicembre del ’45, si era imposta una scelta: la scrittura o la vita. Ero stato io, certo, ad imporre a me stesso di fare quella scelta. Ero io, soltanto io, a dover scegliere. Il racconto che brandello su brandello, frase su frase, strappavo ai miei ricordi, come un cancro luminoso divorava la mia vita. O quantomeno il mio desiderio di vivere, di perseverare in questa misera gioia. Ero convinto di arrivare al limite in cui avrei dovuto prendere atto del mio fallimento. Non tanto perché non riuscivo a scrivere, quanto perché non riuscivo a sopravvivere alla scrittura.

Al contrario di molti prigionieri scampati alla morte che hanno sentito la necessità, per poter continuare a vivere, della scrittura, Semprún si concentra sulla politica, e dopo la Liberazione entra a far parte dei gruppi comunisti che combattevano contro Franco, è questa la sua spinta alla sopravvivenza. Ma negli anni Sessanta verrà espulso dal Partito Comunista e comincerà a sentire, sempre più pressante, l’esigenza di raccontare. Oltre ai libri si dedicherà all’attività di sceneggiatore e molti film verranno tratti dai suoi adattamenti, tra i registi più famosi con i quali ha lavorato figurano Alain Resnais e Konstantínos Costa-Gavras.

Avevo pensato che sarei potuto ritornare alla vita, dimenticare nella quotidianità della vita gli anni di Buchenwald, non tenerne più conto nelle conversazioni, con gli amici, e portare a termine comunque il progetto di scrittura che mi stava a cuore. Ero abbastanza presuntuoso da pensare che avrei potuto gestire quella concertata schizofrenia. Ma appariva chiaro che scrivere, in un cero senso, significava rifiutare di vivere. Ad Ascona, quindi, sotto il sole invernale, ho deciso di scegliere il silenzio frusciante della vita contro il linguaggio mortale della scrittura. Ne ho fatto una scelta radicale, era l’unico modo di procedere. Ho scelto l’oblio, ho messo in atto, senza troppa indulgenza nei confronti della mia identità, fondata essenzialmente sull’orrore – e forse sul coraggio – dell’esperienza del campo, tutti gli stratagemmi, la strategia, crudelmente sistematica, dell’amnesia volontaria.

Sono diventato un altro, per poter rimanere me stesso.

copertinaSemprún ha scelto per lungo tempo di non raccontare, di non ricordare, di cancellare il periodo trascorso a Buchenwald come un insopportabile incubo da dimenticare, la sua voce è stata il silenzio. Quest’oblio volontario è durato per ben sedici anni. Ma si sa, quello che siamo prima o poi emerge sempre e la memoria è un processo che non conosciamo appieno, talvolta si svincola da ogni regola e segue un suo cammino che prescinde da quello che vogliamo. Così, come Proust intingendo la madeleine nella tisana di tiglio si accorge che un semplice sapore può fare riaffiorare ricordi apparentemente perduti, lo stesso processo di memoria involontaria avviene in Semprún attraverso il fumo di una sigaretta o il candore della neve che lo riportano all’improvviso nel campo. Nel 1961 lo scrittore era dirigente del Partito comunista spagnolo e per una settimana fu costretto a rimanere nascosto in un appartamento di Madrid senza mai uscire. Il padrone di casa era stato deportato a Mauthausen e non smetteva di raccontare la sua esperienza, ma Semprún si rendeva conto di come un racconto mal fatto non potesse dare minimamente l’idea di quello che era successo davvero. Alla fine della settimana ecco che si presenta anche per lui l’esigenza non più rimandabile di narrare quegli avvenimenti ed è così che prende forma Il grande viaggio (1963) dove si descrive il terribile itinerario di cinque giorni, insieme ad altri 119 detenuti ammassati all’interno di un vagone merci, diretto a Buchenwald. Nella genesi del romanzo La scrittura o la vita, invece è stato il suicidio di Primo Levi l’elemento scatenante della memoria.

Ricordare però è stato come consegnare la vita al mondo effimero dell’illusione, come se la morte e il male fossero divenuti una costante interrotta solo provvisoriamente dal sogno di vivere.

«Crematoio, spegnete!»[]

Così, dopo il ritorno da Buchenwald, nei soprassalti del risveglio, o del ritorno in sé, ci capitava di sospettare che la vita non fosse stata altro che un sogno, a volte piacevole. Un sogno da cui quelle due parole ci risvegliavano d’improvviso, gettandoci in un’angoscia strana per la sua serenità. Poiché non era la realtà della morte, d’improvviso ricordata, ad essere angosciante. Era il sogno della vita, seppure sereno, ricco di piccole gioie. Era il fatto di essere vivi, seppure nel sogno, che era angosciante.

Vivere la morte, fare esperienza dell’unica cosa che non si può sperimentare, ovvero morire appunto. Per Semprún non si pone nemmeno l’ostacolo del linguaggio, secondo lui non esiste infatti l’indicibile, ma semmai l’invivibile. Allora il punto fondamentale non sta nella forma, ma nella sostanza, ed è proprio questa l’essenza che non è trasmissibile.

Si può sempre dire tutto insomma. L’ineffabile di cui tanto si parla è solo un alibi. O un segno di accidia. Si può sempre dire tutto, il linguaggio contiene tutto. Si può dire l’amore più intenso, la crudeltà più tremenda. Si può nominare il male, il suo gusto soporifero, i suoi piaceri deleteri. Si può dire Dio e non è poco. Si può dire la rosa e la rugiada, lo spazio di un mattino. Si può dire la tenerezza, l’oceano custode della bontà. Si può dire l’avvenire e i poeti vi si avventurano con gli occhi chiusi e la bocca feconda.

Sì si può dire tutto, ma è un tutto che riguarda la pienezza filologica, una ripetizione infinita di orrore e morte che però non riesce a far emergere anche il resto. Il racconto si può fare, ma quello che Semprún vuole ottenere è qualcosa di più, è la possibilità di esprimere anche tutto quello che sta dietro alle parole e che non appartiene al codice linguistico.

L’essenziale? Sì, credo di saperlo. Credo di cominciare a saperlo. L’essenziale è riuscire ad andare oltre l’evidenza dell’orrore per tentare di raggiungere la radice del Male radicale.

Perché l’orrore non era il Male, o almeno non era la sua essenza. L’orrore non era altro che l’addobbo, l’ornamento, l’apparato. L’apparenza insomma. Si sarebbero potute passare delle ore a fornire testimonianze sull’orrore quotidiano, senza sfiorare l’essenziale dell’esperienza della vita nel campo. Anche se si fosse testimoniato con un’assoluta precisione con una costante oggettività – per definizione negata al testimone individuale – anche in quel caso si sarebbe perso l’essenziale. Perché l’essenziale non era l’orrore accumulato, di cui potremmo elencare all’infinito i particolari. Si potrebbe raccontare una qualunque giornata, a cominciare dal risveglio alle quattro e mezzo del mattino, fino all’ora del coprifuoco: il lavoro massacrante, la fame perenne, la continua mancanza di sonno, le angherie dei kapo, le corvè delle latrine, gli schläge delle SS,  il lavoro alla catena nelle fabbriche belliche, il fumo del crematoio, le esecuzioni pubbliche, gli interminabili appelli sotto la neve degli inverni, lo sfinimento, la morte dei compagni, senza con questo toccare l’essenziale, né svelare il mistero glaciale di questa esperienza, la sua tetra scintillante verità: la tenebra che ci era toccata in sorte. Che è toccata all’uomo come sorte, fin dall’eternità. Meglio ancora, fin dalla storicità.

«L’essenziale», dico al tenente Rosenfeld, «è l’esperienza del Male. Certo, la si può fare dappertutto, questa esperienza. Non c’è bisogno dei campi di concentramento per conoscere il Male. Ma qui sarà stata cruciale e totale, avrà invaso e divorato ogni cosa… è questa l’esperienza del Male radicale…»

La sostanza qui è il Male, non il racconto delle azioni supportate da una crudeltà senza limiti, ma proprio il fondamento immorale che porta alla negazione dei principi fondamentali dell’umanità, e che, al tempo stesso, fa parte integrante dell’essere umano che racchiude in sé l’umano e l’inumano, è questo forse il punto inaccettabile, il fatto che non ci si può opporre al Male assoluto, né negarlo come qualcosa che non appartenga alla specie umana, poiché ne è parte integrante.

La guerra è certamente il terreno più fertile per dare libero sfogo all’inumanità dell’umanità e l’uomo che recepisce, gli artisti, i poeti, si fanno carico di un dolore impotente, diventano anche portavoce, educatori, coloro che sono chiamati a trasmettere la conoscenza, la totalità dell’essere umano e l’inconcepibile vicinanza tra bene e male, animato e inanimato, vita e morte, tanto che, a ben guardare, a volte sembra proprio che non ci sia alcuna differenza.

Sono una creatura

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

(G. Ungaretti)

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Tempo, noia e il sintomo morboso dell’amore.

L’uomo, da essere limitato, ma sufficientemente intelligente da rendersene conto, ha capito presto che era necessario introdurre nella quotidianità un ordine fittizio, per sconfiggere il caos dell’istinto, per tenere a bada la natura e per potere esercitare ogni forma di potere. Attraverso la catalogazione, fornendo un nome a tutto, ha potuto controllare il singolo, con l’introduzione delle varie religioni ha potuto controllare la società, con la convenzione del tempo ha scandito l’esistenza, con le norme di convivenza civile ha imbrigliato la passione e il desiderio, con le regole dell’estetica e della retorica ha confinato la fantasia creativa, mentre l’inevitabile morte fa ricominciare sempre tutto daccapo. A quanto pare la maggior parte di ciò che oggi riteniamo “normale”, “naturale” è in realtà frutto di millenni di convenzioni, studiate a tavolino e ormai penetrate nel tessuto connettivo di ogni essere umano.

 

Che cosa è mai il tempo? domandò Castorp spingendo in fuori la punta del naso con tanta forza che diventò bianca ed esangue. Me lo sai dire? Lo spazio lo percepiamo coi nostri organi, coi sensi della vista e del tatto. Bene. Ma quale è l’organo del tempo? Me lo vuoi indicare? Vedi, ora sei con le spalle al muro. D’altronde come facciamo a misurare una cosa della quale, a rigore, non sappiamo dire niente di niente, indicare nemmeno una qualità? Noi diciamo: il tempo trascorre. Sta bene, lasciamolo trascorrere. Ma per poterlo misurare… Ecco, per essere misurabile dovrebbe trascorrere uniformemente, e dov’è scritto che lo fa? Per la nostra coscienza non lo fa, noi per motivi di ordine superiore poniamo soltanto che lo faccia, e le nostre misure, scusami, sono soltanto convenzionali…

copertinaHans Castorp, protagonista del capolavoro di Thomas Mann, La montagna incantata (1924), si chiede spesso cosa sia questo fantomatico tempo che non si vede e non si tocca, ma che ritma la nostra realtà, la parcellizza, la rende concreta, anche se non abbiamo nemmeno un senso adatto a sentirlo, addirittura lo misuriamo come se fosse una linea diritta lungo la quale si può andare solo avanti verso il futuro o guardare indietro verso il passato, privandoci in tal modo di una visione d’insieme circolare, dunque completa. Malgrado tali lacune tutti ne parliamo con disinvoltura, come se conoscessimo ogni suo segreto, come se, attraverso questo strumento potessimo scandagliare l’intera storia dell’umanità, ma questo è impossibile da fare senza falsarla dal momento che si tratta più che altro di suggestione, essendo il tempo cronologico che ci governa, frutto di mera convenzione.

Intorno alla natura della noia circolano varie opinioni errate. In complesso si crede che il fatto di essere interessante e la novità del contenuto “facciano passare”, cioè accorcino il tempo, mentre il vuoto e la monotonia ne rallentino e ostacolino il corso. Ciò non è punto esatto. Può darsi che la monotonia e il vuoto allunghino e rendano “noiosi” il momento e l’ora, ma i grandi e grandissimi periodi di tempo li accorciano e volatilizzano addirittura fino all’annullamento. Viceversa un contenuto ricco e interessante può certo abbreviare e sveltire l’ora e magari anche il giorno, ma portato a misure più vaste conferisce al corso del tempo ampiezza, peso, solidità, di modoche gli anni pieni di avvenimenti passano più adagio di quelli poveri, vuoti, leggeri che il vento sospinge e fa dileguare.

A volte l’ordine dei pensieri segue anch’esso l’intesa comune, eppure una semplice osservazione può mutare radicalmente la realtà. In genere siamo abituati a pensare che il tempo trascorra velocemente (e quindi diminuisca) quando facciamo qualcosa che ci appassiona e lentamente (e quindi si allunghi) quando invece ci annoiamo, in verità è tutto il contrario. Per comprendere meglio bisogna ampliare il raggio d’osservazione. Se ci riferiamo a delle ore o al massimo ad una giornata percepiamo la sensazione di velocità, ma se ci rapportiamo a una vita intera allora il discorso cambia poiché sono proprio tutti i momenti intensi, ricchi di avvenimenti (quelli che volano per intenderci) che conferiscono pienezza e lunga durata all’esistenza, al contrario l’impressione di noiosa lentezza collegata ad anni di vuoto, si riduce di fatto ad un annullamento del tempo e della vita stessa.

A rigore, dunque, quella che chiamiamo noia è piuttosto un morboso accorciamento del tempo in seguito a monotonia: lunghi periodi di tempo, se non si interrompe l’uniformità, si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo; e nell’uniformità perfetta la più lunga vita sarebbe vissuta come fosse brevissima e svanirebbe all’improvviso. Assuefarsi significa lasciar addormentare o almeno sbiadire il senso del tempo; e se gli anni giovanili sono vissuti lentamente e la vita successiva invece si svolge e corre sempre più veloce, anche questo è da attribuire all’assuefazione. Noi sappiamo benissimo che intercalando assuefazioni nuove e diverse adottiamo l’unico rimedio che serva a trattenere la vita, a rinfrescare il nostro senso del tempo, e così il nostro sentimento del vivere si rinnova.

È dunque la percezione a creare ciò che ci circonda, ma con un’osservazione adeguata ogni cosa si può ribaltare. Una vita noiosa, monotona si percepisce come interminabile, mentre è cortissima perché se ogni giorno è uguale all’altro è come se fosse un giorno solo e di tanti anni non rimane che un istante. Ma l’assuefazione colpisce un po’ tutti, ed è il motivo per cui quando si è giovani e in preda a continui cambiamenti sembra che il tempo rallenti, mentre dopo una certa età schizza via come un fulmine. L’unico rimedio possibile è allora quello di cambiare abitudine, quando un certo ritmo si radica profondamente in noi tanto da avere una scaletta quotidiana da seguire alla lettera e il minimo cambiamento ci procura una sorta di fastidio carico di angoscia, allora è decisamente giunto il momento di abituarsi a qualcos’altro.

Questo è lo scopo di chi cambia aria e luogo, di chi va ai bagni, di chi si ricrea con diversivi ed episodi. I primi giorni di un nuovo soggiorno hanno un andamento giovanile, cioè ampio ed energico… vanno da sei a otto. Poi, via via che uno “si acclima”, nota che man mano si accorciano; chi è attaccato o, meglio, si vorrebbe attaccare alla vita, avvertirà con orrore come i giorni ridiventino leggeri e si mettano a scivolar via; e l’ultima settimana, poniamo di un mese, vola con rapidità paurosa.

Il potere dell’abitudine però è davvero devastante, la prova si trova facilmente in chi tenta di sfuggirgli spostandosi di continuo, per capire meglio basta pensare a quello che succede quando si compie un lungo viaggio. All’inizio tutto va a rilento, man mano che ci si abitua alla nuova situazione i giorni cominciano a correre rapidamente e alla fine il tempo sembra essere volato via in un istante. L’interruzione dell’assuefazione precedente al viaggio si trascina anche al rientro a casa, ma dura davvero poco, inizialmente ci sembra infatti tutto strano e diverso, ci si aggira in casa come degli estranei, eppure basta immergersi nelle abitudini di sempre e dopo sole ventiquattr’ore è come se non si fosse mai partiti e il viaggio fosse stato il sogno di una notte.

Mi permetta, ingegnere, di dirle e di farle notare che l’unico modo sano e nobile, nonché (lo voglio aggiungere espressamente) l’unico modo “religioso” di considerare la morte consiste nel comprenderla e sentirla come parte e accessorio, come sacra condizione della vita, non già- che sarebbe il contrario di sano e nobile, ragionevole e religioso – nel volerla scindere in qualche modo dalla vita, nel contrapporla o magari metterla in ripugnante antagonismo ad essa.

La storia si svolge in un sanatorio sito sulle Alpi svizzere, inevitabilmente altre due tematiche si fanno largo tra le pagine del libro, ovvero la malattia e la morte. Trovandosi in una casa di cura ed essendo tutti malati, anche se a livelli differenti di gravità, l’attenzione nell’osservazione si acuisce e quello che nella vita quotidiana da “sani” si dimentica facilmente, da “malati” diventa invece una costante. Si muore. Ma non per sfortuna, per accanimento degli dei o chissà che altro, si muore semplicemente perché quello è uno degli aspetti della vita. Quando nasci sei anche morto, è inevitabile, solo che in un sanatorio te lo ricordi ogni giorno. Malgrado morire sia normale, ecco che culturalmente si è creata un’altra convenzione e cioè che morire è male e dunque la morte è nemica della vita e non sua compagna di viaggio. Questo immancabilmente spinge la maggior parte delle esistenze in un baratro di sofferenza inutile e pone vita e morte in continua competizione, in un duello impari del quale si conosce già l’esito.

E’ strano: malata e stupida, non so se mi spiego, ma a me sembra molto singolare che uno sia stupido e malato per giunta, due cose che messe insieme danno, credo, la somma più triste di questa terra.Non si sa proprio che viso fare, perché a un malato si vorrebbe portare rispetto e serietà, vero? La malattia è, direi, qualcosa di venerando, se è lecito usare questo termine. Ma quando interviene continuamente la stupidità con “l’esistente” e con “l’istituto cosmico” e simili spropositi, non si sa veramente se piangere o ridere, il sentimento umano si trova in un dilemma, così penoso che non ho parole per definirlo. Sono due cose che non collimano, non vanno d’accordo, non si è avvezzi a immaginarle accoppiate. Uno stupido, penso, dev’essere sano e comune, mentre la malattia deve rendere l’uomo fine e saggio e insolito.

Ecco un’altra inquietante convenzione, nobilitare la malattia, portarla a un livello superiore, renderla sacra come se fosse un dono, un accorgimento, un segno di attenzione da parte della divinità riservato proprio al malato. Castorp fa un’osservazione che rispecchia questo tipo di pensiero e si sorprende nel cogliere in una stessa persona due elementi che si escludono a vicenda: malata e stupida. Per lui è impossibile che si concentrino in un unico individuo convinto com’è che chi è malato debba anche necessariamente sviluppare abilità intellettive, saggezza e nobiltà d’animo.

Ma no, no! La malattia non è affatto nobile, non è affatto veneranda. Questa concezione è a sua volta malattia o la via per arrivarci. Perché le appaia detestabile mi converrà dirle che è una concezione antiquata e brutta. Risale a epoche di superstiziosa contrizione, quando l’idea umana era avvilita e degenerata in una smorfia, a tempi angosciati nei quali armonia e salute erano considerate sospette e diaboliche, mentre gli acciacchi erano come un lasciapassare per il paradiso.

Ancora una volta ci si scontra con qualcosa che si percepisce, dettato da leggi non scritte, ma che non ha nulla a che vedere con la realtà. Perché mai la malattia dovrebbe essere nobile? Semmai è una dolorosa umiliazione, una crudeltà gratuita concepita dalla natura matrigna e che nulla ha a che vedere con una presunta benevolenza divina che tocchi figli prediletti, che invece farebbero volentieri a meno di tali privilegi. Quindi il dilemma non sta tanto nell’incompatibilità tra malattia e stupidità quanto nel legare uno spirito nobile e desideroso di vivere a un corpo non idoneo alla vita.

Ma il concetto si spinge ancora più in là, perché c’è una natura fisica della malattia ed una metafisica, del resto se si gioca con la percezione allora la mente spadroneggia incontrastata. Già Platone aveva associato amore e malattia ed ecco allora che si fa strada la convenzione più potente di tutte, ovvero l’idea dell’esistenza dell’amore passionale, che risulta devastante come una fissazione, anzi essenza stessa dell’infermità.

E’, diceva, fra tutti gli istinti naturali il più instabile e compromesso, tendente a fondamentali aberrazioni e scellerate perversioni, né c’era da stupirsi: questo potente impulso non è infatti semplice, bensì per sua natura variamente composto, e per quanto sia legittimo nel suo complesso… risulta composto di sole storture.

Le storture si presentano nel momento in cui l’aspetto culturale interviene su quello naturale con l’intento di regolamentare, offrendo in tal modo una sorta di legalità anche alla deviazione, oltre a questo bisogna tener conto dell’intervento degli impulsi psichici e dell’istinto pronti a dare una sistemata al tutto. Tuttavia, a volte, questo ingranaggio non funziona, le forze che si scontrano non riescono a trovare un accordo e i freni inibitori che la buona educazione e le convenzioni sociali plasmano abilmente, vengono travolte dalle inclinazioni nascoste, che emergono da chissà dove rompendo gli argini della buona creanza.

In questa battaglia continua tra repressione dell’amore e istinto che si dibatte entra in gioco un grande dispendio di energie, una lotta senza quartiere tra ordine e caos, un’esplosione continua che debilita e adombra la mente e ogni tanto qualcosa si rompe, un meccanismo va in avaria, soprattutto nel momento in cui diventa inaccettabile scoprire di essere molto diversi da quello che la società si aspetta. Ma tutto ciò che siamo in un modo o nell’altro viene sempre fuori:

E quale è mai la forma, la maschera sotto la quale ricompare l’amore non ammesso e trattenuto? Così domandò il dottor Krokowski facendo scorrere lo sguardo lungo le file come se aspettasse davvero la risposta dai suoi ascoltatori.

(…) “Sotto la maschera della malattia!”. Il sintomo morboso, disse, sarebbe attività amorosa camuffata e ogni malattia amore trasmutato.

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John Williams. Stoner

Spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro.

Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia, e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva avuto due amici, e uno dei due era morto insensatamente prima che potesse conoscerlo, mentre l’altro si era ormai ritratto a tal punto tra i vivi, che…

Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio. Aveva avuto anche quella e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katherine, pensò. «Katherine».

Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre.

Aveva sognato di mantenere una specie d’integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro?, pensò. Che altro?

Cosa ti aspettavi?, si domandò.

stonerCosa si aspettava William Stoner dalla vita? Ed è stata un fallimento? Per certi versi sì sicuramente, ma nello stesso modo in cui lo è per ognuno di noi, proprio per quella domanda fondamentale e inutile: cosa ti aspettavi? Il problema di fondo è lì, nelle aspettative, che sono il metodo migliore per falsare i propri desideri, le proprie attitudini. Ma allora se si inverte l’informazione, forse la vita di Stoner è stata un vero successo, dal momento che lui non ha assecondato affatto le aspettative, ma ha seguito l’improvvisa folgorazione della passione per la letteratura. Ha fallito se si seguono le norme del successo sociale e quindi non è diventato famoso, non ha avuto fortuna all’università, anzi al contrario è stato vessato, non ha avuto un matrimonio felice e perfino il rapporto con la figlia, carico di promesse si è rivelato poi fallimentare. Socialmente William Stoner ha fatto fiasco, ma spostandolo dal circuito pubblico le cose cambiano. Figlio di un contadino, che ha passato la vita coltivando una terra che lo porterà alla tomba, riesce ad entrare all’università di Columbia nella facoltà di Agraria, ma ecco che qualcosa succede e il suo destino segnato muta all’improvviso direzione. Stoner scopre le parole, i libri, la poesia ed è un amore dal quale non si separerà mai, che darà un senso a tutta la sua vita e ne farà un successo.

Non si tratta di ambizione, di inseguire una meta a tutti i costi (questo lo porterebbe al fallimento) si tratta di sé, della voce che lo anima, della scoperta dell’essenza e della semplicità della consapevolezza. Il tempo nel quale vive Stoner è estraneo a quello strutturato, il suo è il tempo sempre presente e sempre diverso della letteratura, delle storie che s’intrecciano, delle vite fatte di emozioni e l’università è il rifugio perfetto per mantenere un certo equilibrio, per far sì che una “realtà” giunga a compenetrare l’altra, fondendo reale e irreale nella dimensione personale di William Stoner.

Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva solo di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o esserne tolti di vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo tanto imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento.

La presa di coscienza avviene gradualmente. Quando è ancora studente di Agraria viene in contatto con l’insegnante che lo trascinerà in mondi per lui ancora insospettabili e del tutto incomprensibili, il professor Sloane. Senza alcun preavviso, il settantatreesimo sonetto di Shakespeare, sul quale verrà invitato ad intervenire, gli aprirà un varco attraverso il quale sarà risucchiato senza possibilità di tornare più indietro.

In me tu vedi quel periodo dell’anno

Quando nessuna o poche foglie gialle ancora resistono

su quei rami che fremon contro il freddo,

nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.

 /

In me tu vedi il crepuscolo di un giorno

che dopo il tramonto svanisce all’occidente

e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,

ombra di quella vita che tutto confina in pace.

 /

In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco

che si estingue fra le ceneri della sua gioventù

come in un letto di morte su cui dovrà spirare,

consunto da ciò che fu il suo nutrimento.

 /

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce

per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

La breccia che si apre potrebbe essere proprio nell’intuizione della fugacità dell’esistenza, nella consapevolezza di doversi porre di fronte a una scelta fondamentale, nella possibilità di non dover per forza accettare una strada, vedere che si può cambiare perché l’immagine di noi stessi che la società ci proietta sullo specchio, raramente coincide con le nostre potenzialità, con la splendida fioritura interiore che non sappiamo nemmeno di possedere, questa è la rivelazione.

L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.

Nella prefazione all’edizione francese Anna Gavalda che l’ha anche tradotto dice: c’est un roman qui ne s’adresse pas aux gens qui aiment lire, mais aux êtres humains qui ont besoin de lire (è un romanzo che non si rivolge alle persone che amano leggere, ma agli esseri umani che hanno bisogno di leggere) e ormai non ci si sorprende più quando si scoprono romanzi di un certo livello che tuttavia necessitano di decenni prima di trovare la luce insieme ai loro autori, anche se molti di più nemmeno ci riescono. Così John Williams (1922-1994) ha insegnato all’università di Denver per trent’anni, scrittore texano autore di diversi romanzi, ha pubblicato, senza successo, Stoner nel 1965, mentre nel 1973 ha vinto il prestigioso premio letterario National Book Award con il libro Augustus e tuttavia rimane un illustre sconosciuto.

Trovava sollievo e appagamento solo durante le lezioni che frequentava come studente. Lì era ancora in grado di cogliere l’emozione che aveva provato il primo giorno, quando Archer Sloane gli aveva rivolto la parola e, in un solo istante, si era trasformato in un uomo nuovo. Mentre la sua mente era impegnata in quegli argomenti e si confrontava con il potere della letteratura cercando di comprenderne la vera natura, avvertiva un continuo cambiamento: e come se ne fosse consapevole, usciva da se stesso entrando nel mondo che lo conteneva e comprendeva così che la poesia di Milton, o il saggio di Bacon, o la commedia di Ben Jonson che stava leggendo cambiavano il mondo che avevano per oggetto, e lo cambiavano in virtù della loro dipendenza da esso.

A lettura ultimata ci si chiede inevitabilmente il perché di questa scelta da parte dell’autore e cioè quella di descrivere un personaggio che non si ribella a certi avvenimenti (subisce le vessazioni di un collega, si lascia tormentare dalla moglie, non lotta per l’amore finalmente trovato, si lascia scivolare via dalle mani la vita della figlia…) e, pur potendo, non tenta nemmeno di migliorare la propria situazione lavorativa e quindi sociale facendo carriera all’università. Fin dalla prima pagina veniamo avvertiti dal narratore che non succederà nulla di eccezionale, eppure alla fine ci rendiamo conto che non è affatto vero, che accadono cose straordinarie in questo libro e in questa vita apparentemente fallimentare. Si tratta di un romanzo “esistenzialista” in senso letterale ed è proprio l’esistenza la protagonista principale, l’esistenza semplice di chi sceglie, anzi di chi è scelto dall’amore per la letteratura, amore che allontana dalla strada consueta e per questo fa sembrare certe preferenze incomprensibili, addirittura fastidiose, poiché si tratta di una vita che si svolge su piani differenti dove vigono regole diverse per ognuno, regole che dipendono dalla sensibilità individuale, che si adattano alle caratteristiche del soggetto prescelto. E tuttavia, anche la vita “normale” di Stoner non lascia indifferenti, anzi nel lettore si scatenano reazioni molteplici che vanno dalla rabbia alla commozione più profonda e questo perché nessuna vita, anche quella apparentemente più banale è mai incolore e, soprattutto, nessuno può mai sapere cosa si scateni nell’animo di un’altra persona.

Fuori era buio, e una brezza primaverile soffiava nell’aria. Stoner respirò a pieni polmoni e sentì il suo corpo ritemprato dal freddo. Oltre il profilo discontinuo del caseggiato, le luci della città brillavano nella nebbia, che gravava sottile nell’aria. Dopo l’angolo, un lampione baluginava solitario, avvolto nell’oscurità. Dal buio emerse all’improvviso una risata, che ruppe il silenzio, indugiò un istante e svanì. La nebbia tratteneva il fumo della spazzatura, che bruciava nei cortili sul retro, e mentre camminava lento nella sera, respirandone l’odore e sentendo sulla lingua il sapore tagliente dell’aria, gli parve che quel momento fosse abbastanza e che non avesse bisogno di molto di più.

Di fronte a questo Don Chisciotte del Midwest, come lo aveva definito l’amico Dave Master, gli attacchi del mondo esterno sono impietosi. Edith, la moglie, isterica e anaffettiva tenta di trascinarlo tra i conformismi sociali, non tollera la sua mancanza di ambizione, né la sua remissività. Per buona norma deve fare almeno un figlio e così si concede al marito in un rituale quasi animalesco voluto unicamente dalla necessità dell’accoppiamento al fine di procreare. Nasce una bambina, Grace, che inizialmente la madre allontana da sé e che si lega fortemente a Stoner, il quale la ricambia e la coinvolge nel suo mondo incantato. La bambina collabora, si isola, si ritaglia uno spazio creativo all’interno dello studio del padre. A questo punto però Edith deve intervenire brutalmente, strappandola dalle grinfie del padre e riportandola alla “normalità”, ovvero a una full immersion in società. Il prezzo che dovrà pagare Grace sarà però molto alto. E poi c’è l’ambiente di lavoro, il suo regno, anche qui gli viene sferrato un attacco potente quanto ingiustificato da parte di un collega e a maggior ragione ci si sente amareggiati trattandosi di un luogo in cui si presume che cultura e intelligenza abbiano il sopravvento, mentre ancora una volta ci si ritrova in un microcosmo in cui si riversano tutte le debolezze e le meschinerie sociali umane.

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce

per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

William Stoner è uno stoico perché sa che la vita è transitoria, sa che conferiamo importanza a qualcosa di effimero, sa anche che l’uomo è sempre in perdita, non per sfortuna, per malasorte, ma perché non vede l’esistenza nella giusta prospettiva. Se la vita è sottrazione, ma la si vive come addizione si finisce per soffrire inutilmente, al contrario, con la consapevolezza di quello che siamo si può seguire il flusso senza affanno, in accordo con lo scorrere lento e veloce di un’esperienza comunque fuggevole. Così quello che a noi sembra umiliazione, ingiustizia, sofferenza, insensatezza, per Stoner è un problema che non lo riguarda affatto dal momento che la vera vita si svolge altrove, qui è semplice spettatore e come tale è destinato ad uscire indenne da ogni battaglia, a lui non servono armi, né affanni, né crisi di nervi, né sopraffazione, siamo di fronte al più eroico antieroe della letteratura contemporanea.

 

 

Cosa ti aspettavi?, pensò di nuovo.

Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. Vaghe presenze si affollavano ai bordi della sua coscienza. Non riusciva a vederle, ma sapeva che erano lì, a raccogliere le forze in cerca di una palpabilità che non era in grado di vedere né di sentire. Si stava avvicinando a loro, lo sapeva. Ma non c’era alcun bisogno di correre. Poteva ignorarle, se voleva. Aveva tutto il tempo del mondo.

Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato.

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